Mice Parade
What It Means To Be Left-handed
Forse basterebbe ascoltare la settima traccia di quest’album, “Old hat”, per averlo riassunto in tre minuti e trentatre secondi: una chitarra classica apre un arpeggio flamenco intensissimo, un pianoforte la segue intrecciandosi tra le sue scale e la base sintetizzata di una batteria che ricama un intarso elettronico sotto il quale una voce in lontananza, perfetto stile indie, sussurra senza pretendere di spezzare la musica, fino a che tutto si blocca, di colpo, e il pianoforte accompagna al silenzio con un breve assolo.
Al termine di questo brano ci si accorge che Adam Pierce, fondatore solitario dei Mice Parade alla fine degli anni Novanta, non ha tradito la sua ambizione di raggiungere quell’armonia sofisticata tra etnica e jazz per inserirla nel variegato spettacolo dell’indie (come già nell’omonimo “Mice Parade” del 2007 aveva tentato dopo i viaggi tra il Brasile di “Obrigado saudade” e l’Islanda di “Bern-Vinda Vontade”, compiuti tra 2004 e 2005). Ma quando i brani di questo album si susseguono, nella loro costruzione priva di uno schema predeterminato, ci si accorge che Pierce non insegue più un’ambizione, ma la vive, o meglio, ne fa musica.
C’è tutto qui dentro, una moltitudine di influenze che si trasformano in linee creative: dal tribal di “Kupanda”, dove il canto swahili segue il ritmo trascinante delle percussioni africane, al pop-rock stile Rem di “Mallo cup”(cover dei Lemonheads); dal puro indie di “Even” a quello di “Couches & carpets”, che si distende sulla chitarra flamenco attraverso controtempi perfettamente distribuiti; dall’elettronica minimalista di “Tokio late night”, sostenuta da eterei cori nipponici, fino al ritmo bossanova su cui è costruita “Fortune of Folly”.
Ma forse è nelle prime tracce, in particolare “In between times” e “Do your eyes see sparks”, che questo album realizza le proprie ambizioni, riuscendo a caricare lo stile indie di un peso enorme, fatto di tutti i generi che qui appaiono, senza costringerlo a rinunciare alla sua forma pura e disimpegnata, a quel carattere magicamente sognante che sembra trovare un’identità con la voce meravigliosamente eterea di Meredith Godreau (alias Gregory and the hawk).
E se Pierce riesce in questo, è anche grazie alle innumerevoli collaborazioni che hanno trasformato un progetto solitario, com’era nato Mice Parade, in un lavoro plurale, dove ogni singolo componente ha un peso specifico nella costruzione dell’armonia tra i generi: Dan Lippel, chitarrista classico, Doug Scharin, batterista, la vocalist swahili Somi, Caroline Lufkin e membri della band giapponese Clammbon and Toe, oltre alla già citata Meredith Godreau, sono quel nugolo di artisti che, ruotando attorno al genio di Pierce, hanno reso possibile la realizzazione in musica di un progetto lungo e forse senza fine, come può essere un sogno: “una bambina danza nello studio di registrazione mentre la mia musica si spande nell’aria, lei ha tutto il tempo della propria vita di fronte, e in quel momento, in quell’immagine, sento che l’opinione critica non ha più alcun interesse, che i giudizi sono inutili, perché ora la musica è solo musica, è lei stessa il valore della sua esistenza” (Adam Pierce).
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