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R Recensione

7,5/10

Motorpsycho

Behind The Sun

I Motorpsycho A.D. 2014, bontà loro, sono un oggetto curioso e ben strano. Dicono di amare la nozione più dell’oggetto, il coro più della chiesa, come in un elogio dell’adulthood contemporanea non priva di qualche rivendicazione giovanilistica (s’io fossi foco arderei lo mondo…). Si lanciano dove solo i segugi osano e parlano di montagne di formaggio filante (questa volta i Primus non c’entrano) in un’autoassoluzione catartica che li porta, dopo un’ora, a definirsi compiutamente “vittime del rock”. Se Sæther, “Snah” Ryan, Kapstad e la new entry (definitiva?) Reine Fiske alla seconda chitarra hanno dovuto metabolizzare venticinque anni di vissuto per elaborare compiutamente la loro condizione, dura da altresì venticinque anni – anagrafe permettendo – la nostra, personalissima soggezione verso quest’umile power trio, oggi ampliato a quattro, di Trondheim, Norway. Utilizziamo un termine ben preciso per veicolare un senso altrettanto preciso: la sensazione è di chi smisuratamente ammira i risultati semplici, ma geniali, di persone uguali a lui (e non, dunque, rockstar inarrivabili, borghesi annoiati, squilibrati da strapazzo).

Se nel pensier rinova la paura, nel cuore divampano ancora l’emozione e l’orgoglio per avere la fortuna di ascoltare ancora, dopo un quarto di secolo di avventura struggente e spericolata, dischi del genere. Sembra a tratti impossibile che “Behind The Sun”, loro diciassettesimo full length, provenga – e per caratura, e per respiro, e per brillantissima ispirazione – dalle stesse session che diedero vita, meno di un anno fa, a “Still Life With Eggplant”, opus transitorio e claudicante. Se lì l’assenza di un concreto indirizzamento stilistico portava a squilibri non sottovalutabili a livello squisitamente musicale, qui la linea tracciata è chiara negli intenti e quanto mai pregevole nei risultati: “Behind The Sun” è un disco prog suonato da indie rocker. Mai come ora, la compenetrazione tra il feeling dei Motorpsycho di ieri e la competenza professionale (teorica, tecnica, di scrittura) dei Motorpsycho di oggi ha raggiunto tali vette. Scendete lungo la scaletta al quarto solco, “The Promise”, per avere un’idea chiara di ciò di cui stiamo parlando: chitarre acustiche sfumate su fuzz a valanga, l’eroe del nostro tempo Bent Sæther a cantare come in “Angels And Daemons At Play”, il compagno di merende Snah a volteggiare in un’incendiaria sezione solistica, pestando i piedi tra le galosce di un magniloquente arrangiamento hard (indie) rock. Non crediamo di esagerare se dichiariamo, a ragion veduta, che il pezzo merita di entrare nella top five dei Motorpsycho di ogni tempo.

Eppure – c’è un eppure – ancora non basta. Non è il caso singolo a fare grande l’insieme. “Behind The Sun” riesce a convincere trasversalmente. Le ballate, per cifra armonica e colpo d’occhio, sono davvero bellissime. La sola, caramellata, prescindibile “Entropy” rischia di farsi dimenticare in fretta – almeno un paio di minuti troppo lunga e, sui generis, troppo sgrezzata. “Cloudwalker (A Darker Blue)” è Stephen Malkmus applicato ai Gentle Giant, in un quadretto fiabesco d’altri tempi che, tra una coperta di mellotron ed incroci strumentali realmente fantasiosi, riesce a scaldare il cuore in profondità. “Traitor” (alias “Hell, Part IV”) apre come un’ouverture inedita di Ståle Storløkken, per adagiarsi subito dopo, tra le sconnessioni ritmiche di Kapstad e i morbidi sussurri di Sæther, in una narrazione progressiva segmentata dalle incursioni delle chitarre di Ryan e Fiske in territori “Little Lucid Moments”. Il richiamo prosegue quando poi, in “The Tapestry” (“Hell, Part V”), il ritmo si addormenta, tra impercettibili, sciaguattanti onde acustiche e paradisiache gentilezze melodiche. “Swiss Cheese Mountain” (“Hell, Part VI”) chiude magistralmente, sulla cresta di un irrequieto magma elettrico scorciato Genesis. “Ghost”, infine, è episodio di gran classe, una sorta di “Taifun” addomesticata per cuori infranti ed arrangiata (ottimi gli archi, vagamente dissonanti, degli ospiti Sheriffs Of Nothingness), con elementi prog, in direzione quasi brit.

Rimane un solo rammarico: non essere riusciti a condensare il meglio dell’uno e dell’altro disco in un solo, marmoreo capolavoro. Vi immaginate una scaletta del genere con, immaginiamo, l’intera “Hell” a sfilare in tranche distinte (l’ultima, “Hell, Part VII: Victims Of Rock”, è un trionfo selvaggio di free form hard rock suonata a volumi da galera: heavy metal iz a poze, hardt rock is a leifschteil!) e una “The Afterglow” al posto di “Entropy” e, magari, di “The Magic & The Wonder (A Love Theme)”, che rifà il verso a “Sail On” sulla scia di un’altra celeberrima love theme, quella dei primissimi Kiss? Sarebbe stato il coup de grace. L’apoteosi. Un po’ come quando “Where Greyhounds Dare” irrompe sui loop di “KvæStor”, si ferma, si gonfia a dismisura in un baccanale noise (la rana che si gonfia ad imitazione del bue…) e poi riparte di gran carriera.

Quarantacinque anni, più della metà a suonare in giro per il mondo, ancora nessun rivale. Ci rivediamo in tour!

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Voto degli utenti: 6,3/10 in media su 2 voti.
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luca.r 5,5/10

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Utente non più registrato alle 20:22 del 19 giugno 2014 ha scritto:

Disco ad alto tasso progressivo, soprattutto nelle ballate, il che non può che farmi piacere...

e caso più unico che raro, non viene stroncato...mmmhh che strano...