R Recensione

7/10

Obits

I Blame You

Che gli Obits siano fortemente ancorati alla tradizione è talmente lampante che non importerebbe nemmeno ascoltare le loro canzoni, basterebbero anche solo alcune dichiarazioni rilasciate dal leader Rick Froberg, già degli Hot snakes, fra cui, la più significativa a riguardo risulta essere:“We are no into innovation as a band, I think innovation is overrated and an overstimated quality[…]we just go ahead and we play the stuff we like, and we don’t worry about originality”. Beh, l’importante è mettere le cose in chiaro.

Del resto non ci si può aspettare che ogni gruppo che calca ogni maledetto palco di ogni maledetta città, rivoluzioni un sempre più morente mondo del rock, e non lo possiamo certo chiedere a una band all’esordio discografico. Certo che no!

E infatti ad ascoltare questo I blame you non possono non venirci svariati rimandi, suggestioni che ci ricordano ora quel gruppo, ora l’altro, ora quel genere ora l’altro. In effetti il loro sound  non è solo intriso fino al midollo di 40 anni di alternative e indie  rock in senso lato, dai Velvet Undeground ai vari Black rebel motorcycle club, ma anche dalla tradizione rock, se vogliamo più dura e pura, quella più sporca insomma, quella dei primi rocker neri, dei Rolling stones, dei Black Sabbath ma anche del punk-rock di Germs, Dead boys e Saints. Ma  ci sono anche i suoni dilatati e le chitarre di scuola psichedelica (la loro passione per i 13 floor elevators è manifesta),e c’è pure il post-punk, si, anche quello! Television, New order…e poi, beh, poi  parliamo di Sub pop, quindi come non citare il grunge e i Wipers?

Insomma, se non lo aveste capito, c’è una grande confusione. Widow of my dreams con una poco felice apertura alla Kill the young, richiama in qualche misura la scuola Newyorkese formata attorno al CBGB, ma forse è ancor più evidente  il punk-rock epico dei Saints e in generale tutto il rock australiano di fine ‘70 (c’è anche qualcosa di AC/DC). Tocchi psichedelici di chitarra e pedali wah wah chiudono la canzone in un crescendo chiuso da qualche colpo secco di batteria di un ottimo  Scott Gursky, grande protagonista del disco, con il suo incedere marziale, ritmico e secco. Pine On  continua indomita nel ripescaggio di sonorità rock’n’roll senza confini,, veramente trascinante e dal ritmo indiavolato, è forse il miglior pezzo del disco: gli Stooges suonati alla velocità dei Ramones. Fake Kinkade è ancora punk rock, ecco lo spettro di Stiv Bators e dei Dead boys che si affacciano. Non potevano mancare.

 Two headed coin è un altro apice: ritmo frenetico della batteria e chitarre distorte sono la rampa di lancio per un ritornello che ricorda in qualche misura quello di Return of the rat dei Wipers, ma tutto è talmente portato all’estremo che paradossalmente sembra più un brano rhythm’n’ blues di Little Richard o di Chuck Berry che non un moderno brano indie. La provocazione si mischia con il ritmo, ma a cambiare ancora le carte in tavola,  ecco il finale psichedelico che forse non ti aspetti. E non capisci che cosa c’entra. Però chi se ne frega. Run rappresenta una virata, marcata dalla voce più calda e melodica di Sohrab Habibion. Siamo nella direzione opposta rispetto a quella sanguigna di Froberg. Canzone abbastanza prevedibile comunque.

La title track I blame you non è altro che l’inutile  intermezzo che introduce la seconda parte del disco. Una brutta abitudine che gli Obits, sfortunatamente, da impeccabili mimi, non hanno esitato a riprendere. In Talking to the dog, sono gli Stooges, neanche a dirlo, di I wanna be your dog. Il cantato à la Iggy  è un leitmotiv che ricorre per tutta l’opera del gruppo di Brooklyn. Una delle più riuscite in ogni caso. Light sweet crude è stile New order della giovinezza, quelli ancora post-punk per intenderci, con il solito incedere monotono della batteria e il basso pulsante e qualche eco di neo-psichedelia decadente. Lilies in the street è una delle più punk del lotto, fra Stiv Bators, Saints e Ramones ma purtroppo con un certo manierismo alla Kill the young: si prenda come emblematico il ritornello orecchiabile. Anche in questo caso la parte migliore è lo strumentale finale con un rincorrersi delle  chitarra e della batteria. E i Television hanno insegnato qualcosa. SUD, spartana e sporca è ancora Saints in primo luogo ma anche New York dolls e Dead boys.

L’ oscura Milk cow blues aggiunge poco al loro catalogo, ma forse è proprio  su questi solchi che si può riscontrare il tipico stile Sub Pop, quello delle origini, fra punk rock e Black Sabbath: è quella che più si avvicina alle sonorità di Bleach dei Nirvana: veramente simile a School, infatti, ma ovviamente, inferiore. Il disco si chiude con Beck and forth dove si richiamano i Damned più che i Clash nel ritornello epico, mentre la strofa, più intimista e vagamente miagolante sembra quasi un presa in giro di  1974 cantata da Billy Corgan. L’esordio del gruppo di Brooklyn è  poco originale sia per struttura (le classiche 12 canzoni di una durata classica di  3-4 minuti con tanto di una classica successione  strofa/ritornello con il classico intermezzo a metà opera) che per contenuti: vengono prese molte influenze, le più disparate per un lavoro comunque coerente e con una certa linearità e sistematicità. Una capacità tecnica invidiabile e un pugno di canzoni sicuramente convincenti bastano comunque a promuovere un  disco derivativo  ma fresco.

Sinceramente, comunque,  e con una punta di amaro in bocca, non li vedo come il faro per le prossime generazioni di indie a venire, almeno fino a che non mostreranno qualcosa di veramente loro. Abbastanza inutile, molto piacevole.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.