P.j. Harvey
White Chalk
Vi devo confessare una cosa: PJ Harvey non mi è mai stata particolarmente simpatica. La consideravo un'artista tutt'altro che significativa, autrice di un paio di dischi appena sufficienti ("Dry" e "Rid Of Me") e di un'accozzaglia rimanente di mediocrità imbarazzanti e rimanevo sempre incredulo nel leggere esaltazioni e proclami epocali riguardo i suoi dischi.
Molto probabilmente il mio giudizio sulla signora Polly non è ancora mutato del tutto, ma certo è che dopo aver ascoltato questa sua ultima fatica dire che non mi aspettavo una sorpresa simile è poco. L'ultimo album della ragazza di Corscombe, infatti, è un autentico gioiello, uno di quei dischi che non smetteresti mai di levare dal piatto del lettore, e una di quelle opere musicali che rischiano di accompagnarti lungo l'intero corso della tua esistenza.
"White Chalk" è un album molto cupo e sofferto, ma particolarmente ispirato. Più che essere fatto di canzoni, esso è fatto di frammenti di canzoni, di bozzetti intimistici, di frammenti di vissuto, di stati mentali particolari, ognuno una sfaccettatura della personalità della cantante, che in quest'album tocca vertici inauditi di sofferenza e inquietudine, grazie ai quali si assiste contemporaneamente a picchi pessimistici e a barlumi di speranza, con un tocco di ricerca del soprannaturale.
Si parte subito fortissimo con "The Devil", la cui carica emotiva, tra il rassegnato e il disperato, lambisce già livelli di espressività altissimi. Strimpellate di chitarra acustica partcolarmente insistite costituiscono lo scarno arrangiamento, che avvolge una voce soffice e delicata, quasi catartica, sorta di deliquio passionale librantesi in uno sforzo metafisico che è il leit motiv di un pò tutto il lavoro. Verso la parte finale, la magnifica voce diventa disperata, aggressiva, quasi a cercare significati reconditi, mentre contorna il tutto un sottofondo di mandolino e intermezzo pianistico. "Dear Darkness" presenta un altro arrangiamento pianistico dolcissimo, con la voce ancora teneramente febbrile che sembra farsi strada nell'oscurità (più interiore che altro) citata. Una seconda voce maschile, calda e profonda, sottolinea la stasi pura del pezzo.
"Grow Grow Grow" è un insieme di toni che si fanno ancor più sofferti, con un effetto eco a sottolineare lo smarrimento totale e il vuoto esistenziale della protagonista Polly, mentre tocchi delicati di arpa rincorrono un piano dal suono "liquido". Nella parte centrale siamo chiaramente vicini a certo dream-pop di scuola This Mortal Coil e Cocteau Twins, puntellato da una voce accostabile ai picchi più trascendentali di Tim Buckley. Con "When Under Ether" il piano si fa maestoso e l'atmosfera ancora più fumosa ed inquietante, al pari del tono vocale della nostra Polly, che si mantiene tra il confuso e l'angelico. Accanto a questo, la sezione ritmica si fa più intraprendente e accelerata, con percussioni e flauti marcati in sottofondo.
La title-track è con ogni probabilità la traccia più trasognata e allucinata, con ancora degli effetti eco originalissimi e un accompagnamento a base di banjo in stile Woody Guthrie e Pete Seeger. E' un brano in crescendo vocale e rumoristico, alienato da un' armonica che va a concludere la sezione centrale. Ma il culmine della crisi mistica deve ancora arrivare; è in "Broken Harp", infatti, che PJ pronuncia le fatidiche parole "Can You Forgive Me?" con insistenza: essa è una richiesta di perdono e sembra chiaramente rivolto ad un essere trascendente. Il brano ha l'aria di una confessione intima e sofferta, i rintocchi di arpa che seguono l'asperità della voce malata e rauca. Siamo davvero in prsenza dell'apice di smarrimento e perdizione?
No, perchè il "peggio" giunge con "The Plano", con quel "Oh God I Miss You" che riassume il tutto alla perfezione; non è solo una consapevolezza, è anche e soprattutto una richiesta di aiuto, accentuata dall'impianto di chiara matrice dark.
E' doveroso sottolineare che se la nostra cantautrice si fosse fermata a questi sette capolavori l'album sarebbe stato subito da eleggere come il migliore di quest'anno. Invece, purtroppo, la seconda parte risulta abbastanza ripetitiva e priva dell'ispirazione che ha caratterizzato la parte precedente, con la sensazione che la Harvey si sia leggermente "persa" nella ricerca di un climax perfetto. Così, la cosa migliore dell'ultima parte appare chiaramente l'ultimo lamento disperato di "The Mountain", estremo segnale di debolezza e di ricerca di risposte.
Così, va a chiudersi uno dei migliori album del 2007, io credo. Le grandi cantautrici del passato come Laura Nyro, Joni Mitchell e Rickie Lee Jones, senza ombra di dubbio, hanno più di un credito da riscuotere nei confronti di questo disco, in compagnia del neo-folk minimale e medioevaleggiante di Espers e soci. La sensazione è che, tuttavia, un album così intimo e sofferente è davvero difficile da trovare nel panorama delle possibili influenze.
Per questo "White Chalk" è un disco che merita di essere ascoltato con passione. Tanto di cappello, signora Polly!
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