Peace
In Love
I Peace sono semplicemente irresistibili. Persino ingiusto il tentativo di rintracciarne la grandezza in altra mappa che non sia quella del desiderio giacchè, gira che ti rigira, sempre là si torna: i Peace sono semplicemente irresistibili. C'è un cantante, Harrison Koisser, dall'appeal sfrontato/androgino/buzzurro e voce riconoscibile fra mille, con quegli accenni striduli a ogni fin di frase che lo rendono un figo assurdo. Ci sono incastri di chitarre domiciliati in zona tardo baggy/primissimi Verve, muscolari ma evanescenti, innervati di nostalgia brit-pop e schegge di grandeur '10s (e che quindi definire creativi è un eufemismo). C'è una sezione ritmica malleabile, groovy e densa di sottigliezze, ma che soprattutto pompa e pompa madonna quanto pompa vi prego fatemi smettere di ballare. Ci sono canzoni che condensano tutto ciò che di terribilmente britannico vi era nel pop britannico dei primi '90s britannici, finendo col diventare tutti piccoli classici.
Conclusione: In Love (Columbia, 2013) è un disco irresistibile.
Potete far finta di no, ma lo è. E se non vi piace è perchè siete vecchi, sissignori. Altrimenti non si spiegherebbe come mai autentiche bombe quali Higher Than The Sun, Follow Baby, Wraith o Toxic non abbiano effetti immediati e devastanti sul vostro sistema nervoso, costringendovi a maledire il ticchettìo dell'orologio quando non a pentirvi per aver scatarrato su NME durante tutti questi anni perché tanto lo facevano tutti. Come dite, volete qualcosa di più profondo? Questa immediatezza insulta il vostro buon gusto affinatosi con anni e anni di ascolti? Ebbene, sappiate che nonostante l'apparente linearità i Peace sono maestri della variazione subdola, del coretto che ti scioglie, della texture di cui ti accorgi solo al decimo ascolto, del particolare messo dove non te lo aspetteresti; meriti da condividersi col produttore Jim Abbiss, già all'opera con Arctic Monkeys, Editors, Adele. Come se non bastasse, le sei corde di Koisser e Douglas Castle son lì che si danno battaglia appena ne hanno occasione (cioè sempre), prodighe di fughe psichedeliche (la sconcertante Title Track) e arpeggi sospesi nella ionosfera (Sugarstone), in una girandola di timbri, effetti, distorsioni e fraseggi che pochissime altre guitar band odierne sanno concepire e/o gestire con simile disinvoltura.
E poi, inutile negarlo, i Peace possiedono l'abilità somma di appropriarsi del passato ad uso e consumo degli adolescenti affamati di musica. Sono una band che gioca col pop provocandone le ire, liberandone la funzione primordiale. Una band che in Lovesick mescola frattaglie di due canzoni dei Cure e rigurgita un'innodica love song che neanche Evan Dando, o che concepisce il tema introduttivo di Waste Of Paint a immagine e somiglianza di She's So High dei Blur (ma le somiglianze finiscono qui: il resto della canzone prende strade diverse e inconsuete, specie nel bridge). Il tutto senza pretese colte o volontà di citazionismo, ma col solo scopo di celebrare, della musica popular, l'eterno ritorno.
Come dite? Tutto questo parlar di recupero ve li fa schifare ancora di più? Eccerto, come quest'ultimo non fosse da sempre la legge sulla quale si basa l'ecosistema pop, come se le vostre canzoni preferite non fossero a loro volta riconducibili a qualcos'altro che a sua volta... Vabbè, finiamo qui. Evidentemente non è roba per voi. Qui c'è la poesia, la spregiudicatezza dei diciott'anni, miele per le orecchie e caramelle per l'anima. C'è pure la coscienza dei propri mezzi, la lucidità e l'ispirazione del Koisser musicista/songwriter. C'è, infine, California Daze, una canzone che è una, nessuna, centomila canzoni: talmente assoluta che potete leggerla in qualsiasi modo, ricondurla a chi/cosa preferite, ambientarla dove più vi aggrada (California, Trastevere o Alcatraz è uguale) e in ogni caso non vi deluderà, semplicemente perché non può deludere. E' troppo perfetta.
In Love è lo statement dei Peace anno 2013, ed è qualcosa da cui non si può prescindere. Neanche trentasei minuti, ma trentasei minuti dei quali nessuno dovrebbe privarsi. Così come nessuno dovrebbe privarsi dell'amore. Innamoratevi, se ne siete ancora capaci.
(P.S. L'album è uscito anche in edizione deluxe con quattro brani aggiunti. Uno, Bloodshake, era già presente nel Delicious EP e la sua inclusione farà la gioia di molti. Sugli altri tre è opportuno spendere qualche parola, perchè se Scumbag - filastrocca alla Robyn Hitchcock messa a bagno nelle distorsioni - è soltanto carina, decisamente sublimi risultano invece la vertigine neo-psichedelica Step A Lil Closer e il viaggio interstellare Drain: sei minuti di trame minimalistiche post-Foals, tastiere sognanti, ragnatele di armonici e momenti di puro collasso sonico (si ascolti il crescendo dissonante a 1'50''). Inutile specificare che, con siffatte aggiunte, pure il voto andrebbe ripensato. Al rialzo.)
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