Pete and the Pirates
One Thousand Pictures
Quello che affascinava nell'esordio dei Pete and the Pirates, Little Death (2008), era la capacità di inserirsi in un filone ormai al tramonto con un vigore ed una dedizione che distillavano in pezzi roboanti ed enfatici una maestria pop decisamente sopra le righe. Indie-rock canonico, ma pompato da una spinta anthemica, da un chitarrismo fragoroso, da una scrittura sopraffina che regalava momenti melodici dall'indubbia efficacia. In particolare spiccava il canto robusto di Tom Sanders, in grado di flettersi o di gonfiarsi a seconda delle evenienze, dando grande espressività ai 14 brani dell'album.
Era come se la spensieratezza e l'infantilismo indie giungessero ad una piena maturità, dichiarando di poter sviluppare discorsi più ambiziosi e carichi di significato di quanto potessero fare le altre band britanniche (penso agli Arctic Monkeys o ai Maximo Park). In questo senso va notata la vicinanza -per quanto riguarda l'impatto sonoro e l'afflato lirico- ad una band come i Franz Ferdinand, tra i migliori esempi di una rinnovata e florida sottocultura hipster.
Facendo tesoro di un esordio quasi impeccabile la band di Reading esce dopo tre anni con un sophomore che non può evitare di andare incontro a grandi attese. Insomma, se già l'indie rock messo in campo nel 2008 rischiava di sembrare obsoleto, nel 2011 il rischio è quasi scontato. E' anche vero che una semplice conferma basterebbe a placare le attese, niente di più.
Il risultato in qualche modo si decifra partendo da quest'ultima prospettiva.
Can't Fish è un primo esempio di come non si sia persa per strada la stazza imponente che continua a costituire il marchio di fabbrica dei brani della band. Un pezzo che scorre lento, denso, con le chitarre che incedono gravi assieme ad una struttura ritmica serrata che sostiene saldamente il tutto. E subito dopo si sfoggia Cold Black Kitty che ricopre la sua anima flebile con una corazza sonora impattante e, nel finale, distorta e deviata. Altri pezzi forti sono la scattante Little Gun, particolarmente in linea con il mood del precedente lavoro, la malinconica ballatona di Washing Powder, con quel solito fraseggio armonico tra chitarra solista, impegnata a tessere trame melodiche, e lead guitar, a fornire una base imperniata su toni bassi. La capacità di scrittura del gruppo si condensa però con particolare efficacia nella sfilza di pezzi grossi della seconda metà dell'album: uno dopo l'altro United, Motorbike, Things That Go Bump, Half Moon Street, raccolgono quanto di meglio si cela nel songwriting dei Pete and the Pirates, andando a connotare ogni composizione di un'enfasi di grande presa e di intuizioni melodiche davvero brillanti.
Qualche momento di stanca si percepisce, è vero, frutto anche di una tracklist strabordante e carica che mette a dura prova la tenuta complessiva dell'album. Sono da notare alcune novità stilistiche, seppur limitate, tra cui l'utilizzo di orpelli elettronici (Come to the Bar) che non aggiungono molto al tutto se non, dove occorre, maggiore cromatismo. Meno jangly-post-punk, questa volta, e più attenzione allo sviluppo di un discorso più nettamente rock, in una sostanziale metamorfosi che converte la goliardia degli esordi in un'enfasi adulta, compiuta, austera.
Se volevamo una conferma, eccola qui, in tutta la sua stazza.
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