Pfarmers
Gunnera
Tra le strane collaborazioni che ha portato il 2015 si segnala anche un doppio incrocio The National/Menomena piuttosto singolare: da una parte, negli EL VY, faranno coppia i due leader (Matt Berninger e Brent Knopf), dallaltra, nei Pfarmers, hanno unito le forze i due batteristi (Bryan Devendorf e Danny Seim), a cui si aggiunge il cornista Dave Nelson (assoluto protagonista del primo pezzo, Benthos, eterea ma troppo strascicata intro strumentale), che ha lavorato al disco a distanza, senza mai incontrare Seim, che teneva le fila dallOregon.
Discreta, finora, questa prima intersecazione, inevitabilmente destinata a minore esposizione mediatica rispetto allaltra, perché si sa che i batteristi non se li caga mai nessuno. E invece Gunnera è un disco con ottime intuizioni, colorate da una poetica naturalista che rimanda a unaltra band, gli Shearwater, nata al bivio tra gruppi e professionisti del turnismo indie.
Se era prevedibile la grande cura verso la sezione ritmica, qua sempre densa e ovattata in suoni corposi e scuri, ritoccati analogicamente in modo spesso molto invasivo (Work For Me), meno scontata era lattenzione tanto verso la parte vocale, ottimamente interpretata da Seim, quanto verso gli arrangiamenti, invece dettagliatissimi, come le due band madri insegnano. Notevole il lavoro sugli archi e sui fiati, che elevano quasi verso sacralità gospel You Shall Know the Spirit, mentre leccellente The Ol River Gang è guidata da un sinistro ghigno di synth retrofuturista che spariglia il pezzo in un baccanale visionario sospeso tra folklore e modernismo.Che è, poi, dove l'album stupisce e allieta di più, vd. le pieghe cupe di "El Dorado".
Non tutto è così a fuoco, e i sette pezzi vengono ogni tanto stirati troppo (Promised Land), ma resta un lavoro, tra quelli in minore dellanno, che sarà opportuno salvare prima che cada nel dimenticatoio.
Tweet