R Recensione

6/10

Rocket From the Crypt

Rip

Here comes the death of the Rocket from the Crypt. Music will never be the same […] We go to the stage for the last night. […] Ladies and gentlemen this is the last time ever. […] This is the end, my only friend, the end!”

  Non si può certo dire che i Rocket from the Crypt se ne siano andati con poca enfasi, vista addirittura la curiosa (dato l’ambito musicale) citazione morrisoniana che chiude la presentazione di quella che vuole essere la registrazione definitiva della potenza live del gruppo. In effetti sembra di avere di fronte un greatest hits vista la variegata scaletta che pesca un pò a piene mani nella vasta discografia della band californiana che negli anni ’90 è stata sicuramente un punto di riferimento importante nella scena punk internazionale.

A parere di chi scrive però gli album davvero meritevoli di essere ricordati ai posteri sono solo due: il debutto Paint as fragrance (1991) e soprattutto il seguito Circa: now (1992), vere schegge di fuoco in grado di surriscaldare perfino una cella frigorifera. Il resto della produzione si è mantenuto su livelli più che discreti ma in maniera molto discontinua, talvolta scadendo anche in livelli di parodia demenziale decisamente poco attraenti (Scream, Dracula, Scream! del 1995).

Questa discontinuità si ripercuote inevitabilmente anche nel canto d’addio Rip, nonostante un’ottima qualità sonora dello show e la presenza di alcuni anthem primordiali quali French guy (punk ’77 tra Ramones e Damned), Carne Voodoo (chitarra alla Wipers mischiata con il tema di Batman), I’m not invisible (Bad Religion against Social Distortion) fino all’infilzante trittico Hairball alley-Shi boy-Velvet touch.

I momenti più entusiasmanti però sono senz’altro le semi-ballate introdotte da arpeggi in cui il pubblico partecipa coralmente: di qui l’incantevole intro di Used e la mirabile Ditch digger, nella sua semplicità uno dei migliori pezzi mai prodotti dal gruppo.

Purtroppo però il resto del disco non scorre altrettanto bene mostrando inevitabili limiti nell’energia un pò insipida di Don’t Darlene o di Light me o nel frastuono spesso gratuito di brani come Straight american slave, difetti che si rincorrono un pò dappertutto. E allora va bene che “It’s only rock’n’roll” come ricorda insistentemente il carismatico frontman John "Speedo" Reis (tra le altre cose storico chitarrista dei Drive Like Jehu), ma molto spesso i chitarroni non riescono a tenere a bada uno sbadiglio nè a nascondere l’impressione che ci siano un pò troppi cliché da “punk duro e casinaro” nel catalogo.

Senza essere troppo duri rimane nonostante tutto il rispetto per un gruppo senz’altro meritevole di riscoperta.

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