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R Recensione

7/10

Sin Ropas

Mirror Bride

C’è nascosto un destino segreto in tutte quelle sonorità che, in apparenza anoressiche, scarne, muovono poi verso l’enarmonia. Proprio in quei suoni stanchi e usurati sta il piacere dell’ascolto, la condizione prima e ultima che giustifica l’esistenza stessa della musica. Per definizione, non può esservi suono senza un orecchio pronto ad ascoltarlo. Timothy Hurley e Danni Iosello, i due musicisti che stanno dietro al progetto Sin Ropas, esordirono nel lontano 2000 e, dopo sedici anni di gavetta, son tornati con un disco dal forte retrogusto d’oppio, una caverna buia che termina in un salone dorato inondato di ampia luce artificiale, tanto che se fosse un quadro lo accosterei al Klimt più ispirato.

Mirror Bride” prende le mosse da “Save Me a Place”, un brano loureediano giocato sugli accordi caratteristici del folk americano e sui sinusoidi impazziti di qualche sintetizzatore analogico; questo rock da depressione post-parto è il tratto caratteristico pure di “Brush for This” e di “Broken Beaches”. In “Crows” appaiono invece i vagiti di una musica più equilibrata, seppur in presenza di battiti arrugginiti, rozze chitarre e una voce graffiata e graffiante. Ma, quando tutto sembra suonare in completo disaccordo, i Sin Ropas ci mettono del loro per metterti ancor più a disagio con le chitarrine sixties di “Summer Bug” o coi rumori fuori campo di “Silver Brow”. Se nella title-track rubano a piene mani dai tardi Beatles e dalle contaminazioni indiane, nella conclusiva “Tourniquet” la band del North Carolina sembra aver preso lezioni da Kurt Cobain. Al di là di ogni influenza, i Sin Ropas dimostrano una coerenza tipica della gioventù, anche se giovani non lo sono più: suonare la musica che li rappresenta, stando alla larga da ogni compromesso che ne intacchi la purezza, la verginità, la selvatichezza.

Mirror Bride” è bello perché è snervante. È un disco che sai che piacerà a pochi, e che di quei pochi ti potrai fidare a occhi chiusi. L’alogena sperimentazione elettronica dei Sin Ropas dà linfa a brani luminosi e brucianti, a canzoni imperfette che – come suggerito dal titolo – sono capaci di penetrarti anche se ti sei nascosto o se hai cercato di dimenticare: per alcuni questo disco potrebbe essere una catarsi. Insomma, sarebbe tutto perfetto in “Mirror Bride” se non fosse che questo è il 2016, non il 1976.

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