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R Recensione

8/10

Sleater-Kinney

One Beat

Sleater-Kinney Road è una delle tante strade suburbane abbellite da ventosi e alti abeti stile “Twin Peaks” che si trovano a Olympia, capitale di quarantamila anime dello stato di Washington. Siamo nel profondo nord-ovest statunitense di freddo, pioggia e nulla, tana della nuova ondata femminista anni Novanta, un movimento che nelle istanze musicali prenderà il nomignolo di “riot grrrls”. Fu quell’incrocio sulla Interstatale a ispirare nel ‘94 il nome del più importante trio rock femminile in circolazione: le Sleater-Kinney (appunto) delle chitarriste Carrie Brownstein e Corin Tucker e di Janet Weiss, metà-storica dei Quasi subentrata alla batteria nel 1997.

Parliamo di “fox-rock”, “vagina-rock” e altre amenità assortite? No, parliamo semplicemente di una grande band, perché suonare sano e vigoroso rock’n’roll non è certo prerogativa dei maschietti, o uno stucchevole ghetto sessuale in cui decidere “chi” fa “cosa”. E le ragazze in questione sono proprio quelle che in gergo maschilista amiamo definire, superficialmente, “con le palle”: toste, idealiste e dai forti connotati politico-sociali. “One Beat” è il più completo esempio della bravura e consapevolezza dei propri mezzi espressivi della Weiss e compagne, e segue i già ottimi “The Hot Rock” del ’99 e “All Hands On The Bad One” (2000).

La musica delle Sleater-Kinney accarezza con le trame intimiste di un indie-rock comunicativo e sincero, dal continuo call & response delle due voci, ma è anche capace di vibranti schiaffoni alternative/garage. I testi affrontano ingiustizie e problemi della cosiddetta “democrazia americana” post-11 settembre, punti interrogativi di una società controversa e falsa, s’interrogano, domandano, accusano, inveiscono con dolcezza e rabbia, e un orgoglio mai indulgente. La rullata di tamburi iniziale e il sostenuto jingle-jangle elettrico della title-track sono un’esplicita dichiarazione d’intenti, mentre l’appassionato canto della Tucker scuote l’aria come un filo teso all’estremità del cuore.

“One Beat” vive di momenti catartici e introspezione: dall’epicità vedderiana, di pieni e vuoti, dell’insinuante “Faraway” al pathos umorale e schietto del ruvido punk-blues “Light Rail Coyote”, dai sussulti post-grunge di “The Remainder” al reggae-Clash “barricadero” di “Combat Rock”. Nella lista di fragranti melodie pop dal guscio garage-sixties spiccano inoltre “Step Aside”, che incespica baldanzosa tra le possenti bacchette della Weiss, l’urlo liberatorio di Corin e la sua chitarra accordata a mo’ di basso, e i saluti finali al vetriolo della rollingstoniana ballad anti-W. Bush “Sympathy”.

Le Sleater-Kinney sono musiciste dal solido background sulle spalle: dietro gli strumenti abbiamo persone che credono in ciò che fanno e lo esprimono con forza e verità. Il suono compatto, deciso che sprigiona quest’Unico Battito, prodotto da John Goodmanson al Jackpot! Studio di Portland, è un uppercut ben assestato a certe convenzioni da rocker-machisti, e le tracce dell’album pulsano continuamente di sangue e vita. Come l’innodico ritmo new-wave delle elettriche intrecciate dalla coppia Brownstein/Tucker nella stupenda “Funeral Song”, ed ecco quelle frasi, quelle parole pesanti che non riesci a smembrare dai tuoi futili pensieri. E’ sera, nessuno sembra capire il tuo distacco e disagio, e nel silenzio qualcosa apre un solco…

“Stay away from the haunted heart…You swore to yourself that you'd make a new start…But you just love the demon with the poison dart…There's nothing left to see…Turn out the light…”

 

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