Stephen Malkmus and the Jicks
Mirror Traffic
E fu la luce. Colpa di “Stick Figures In Love”, fulminante traccia numero sette di “Mirror Traffic”. Un boogie rock improvviso e quasi trasandato, eppure tanto determinato a cullare il vecchio bambino-slacker in noi da commuovere una pietra al quarzo. Ho capito, perciò, che c’è una luce:speranza per tutti, per me, per voi, per la prole di Sarah Palin e l’epidermide coatta della Snooki di “Jersey Shore”. L’ho capito mentre ascoltavo l’ultima prova solista del nostro beneamato Stephen Malkmus e d’un tratto un alone luminoso circondava la sua secca e allampanata figura. Dopo anni di risultati alterni un piccolo miracolo degno della San Giovanni Rotondo Spa.
Al quinto tentativo l’ex Pavement, sempre siano lodati, e i compagnucci “Jicks” fanno centro pieno come capita a certi centravanti del Montenegro con la faccia di Ahmadinejad, e le nostre lancette biologiche paiono tornare indietro di tre lustri (alle stralunate stramberie pop-rock di “Wowee Zowee” per intenderci). L’adolescenziale scintilla elettrica su rotta Reed-Verlaine-Feelies del brano che citavo qualche riga fa è infatti la classica cosuccia wave-punk per cui oggi gli Strokes sarebbero disposti a praticare l’ascetismo in un monastero tibetano (vabbé, forse esagero). Un’altra simpatica ragione che rende gustoso codesto “traffico a specchio” è la dotta produzione dello specialista-prezzemolo Beck Hansen. Ci pensate? Mr. Loser e il signor “Summer Babe”, l’adolescenziale sogno proibito d’ogni testa alternativa cresciuta negli anni del new deal clintoniano e dei governi tecnici Dini. All’epoca solo un burroso menage à trois con Liv Tyler e Alicia Silverstone avrebbe potuto scalfirlo.
Il tipico attacco straccionesvagato di “Tigers”, con quella voce che s’arrotola su se stessa e sbuffa uguale uguale ai bei vecchi tempi, è un tuffo al cuore irresistibile per chi canticchiava brufoloso “Darlin’ don’t you go and cut your hair…Do you think it’s gonna make him change?“, ma i nuovi Stephen Malkmus & The Jicks non si limitano a fare il lifting alla passata nobiltà da profeti dell’indie-rock. Grazie anche all’essenziale e lucido apporto in studio dell’omino biondo di Los Angeles la verve autoriale torna a gonfiare l’ispirazione del leader, un tizio di mezz’età capace ancora d’autoproclamarsi eterno cazzone nel sagace pop’n’roll di chitarre stop and go “Forever 28”.
E il buon Stefano stimola, eccome, quando prova a portare un sonnolento Nick Drake dalle parti di Fred Neil in “No One Is (As I Are Be)” e svicola nell’onirico interludio di “Jumblegloss”, avanzando sornione su insonni lunaticità blues-folk (“Brain Gallop”, le sinusoidi cosmiche che vampirizzano Gram Parsons in “Long Hard Book”). La band va che è una bellezza, menzione speciale alla dimissionaria signora della batteria Janet Weiss, e il dischetto tira dritto lungo i suoi 50 minuti senza un filo di grasso fino all’ombrosa oasi della ballad psichedelica “Gorgeous Georgie”, persa beatamente tra “Sea Change” e la malinconia stropicciata di “We Dance”. Sappiamo che le sgangherate evanescenze glam-punk d’una “Tune Grief” non cambieranno il mondo, ma gallo vecchio stavolta fa buon brodo: bentornato a casa Stephen. Ora possiamo continuare a stravaccarci sul divano e tirare le freccette sul poster dei Stone Temple Pilots.
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