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R Recensione

7/10

The Dears

Degeneration Street

Dopo aver attraversato come estranei il decennio zero, in cui pure sono nati, e dopo aver sostato ai margini dello scioglimento, i Dears tornano, e lo fanno proseguendo coerentemente la propria strada di ‘orchestral pop noir romantique’, britannico fino nel midollo malgrado la carta di identità dica Montreal. I Dears tornano – quel che è più importante – come una band, e non più come un’espressione della sola coppia Lightburn-Yanchak: il misero “Missiles” (2008), d’altronde, era lì a dimostrare come la chiusura autarchica dei due leader, sposi nella vita, poco avesse giovato.

Ma non si poteva credere che Mr. Lightburn avesse bruciato tutto il suo estro. E difatti “Degeneration Street”, a dispetto della copertina raccapricciante, è un buon disco. 14 brani per una summa del suono Dears, in cui si recupera parte del sofisticato brit-pop fuori tempo massimo di “No Cities Left” e parte del chitarrismo indie più ruvido di “Gang Of Losers”. Il tutto, certo, senza grandi funambolismi, senza gli imprevedibili scarti di genere e la ricchezza sinfonica dei loro apici, ma con una linearità mai banale, e spesso sostenuta da qualche stoccatina epica o da qualche ricamo ambizioso che ricorda come ai Dears essere sopra le righe riesca ancora benissimo.

La menzione d’obbligo è soprattutto per certi crescendo straripanti, in cui Lightburn si svena e torna protagonista. “Galactic Tides” inizia di organo e archi, attraversa i Pulp di “This Is Hardcore” e finisce di urla e imponente wall of sound. “Lamentation” è quel che dice il titolo, ma via elegia, poi chitarre shoegaze, poi solennità corale. “1854”, nostalgia e dramma di scampanii, si alza da terra nella coda di ottoni. “Yesteryear” è indie-pop di campanelli e chitarre jingle-jangle (fuori contesto, ma non male). 14 pezzi di signori arrangiamenti mica è facile trovarli. Produce uno (Tony Hoffer, già Beck, Belle And Sebastian) che d’altronde ne sa.

Notevole, e inedito per i loro dischi, il lavoro sottocutaneo delle chitarre, che ricamano aggiungendo spesso melodie proprie (“Unsung”, “Tiny Man”) o mettendoci ritmo nero (“Omega Dog”). Per lo più, in realtà, le melodie sprigionate da Lightburn bastano e avanzano, vd. “5 Chords” (solo i British Sea Power, oggi, fanno ‘ste cose, e peggio), “Thrones” (Manic Street Preachers da morire), “Blood” (elettriche quasi heavy). Peccato che il disco sia un po’ prolisso: di 2-3 pezzi fiacchi se ne sarebbe fatto volentieri a meno. Ma il peccato di abbondanza è perdonabile, soprattutto se a chiudere è la litania dark-pop della title-track.

Altro che degenerazione. Bello sentire i Dears in forma: scuri, di classe, pop.

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Voto degli utenti: 5,8/10 in media su 2 voti.
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