The National
Trouble Will Find Me
Nel 2013 i demoni dei National potrebbero sembrare mutati; ma, in fondo, sono gli stessi di ieri. Si materializzano, ombre imponenti, ancora, uguale pervasività. Demoni (oggetti, in senso psicodinamico), turbamenti esistenziali, raccontati con realismo urbano dal filtro solipsistico e sentimentale; quello di un medium size american heart in abito completo, dal volto baritonale. Ad ispirare gli arrangiamenti dei gemelli Dessner, i groove e le parti ritmiche dei Devendorf; scalfendo il tratto cupo (<<è il nostro disco più divertente>>... come no) di Trouble Will Find Me.
Del gruppo di Cincinnati, così come per i più grandi, si può dire che suonino sempre (certamente da Sad Songs for Dirty Lovers), nel bene (specie) e nel male, riconoscibili (ma la consapevolezza della loro identità, per voce di Berninger, giungerà ad "High Violet" ultimato), unici; che suonino, senza dare troppo peso alle aspettative degli estimatori (anche in questa occasione, esponenziali) e dei detrattori, le loro personalissime e pretentious bullshit (cit.). Ad ogni modo, dalle tinte melanconiche, e dalle trame omogenee (le texture) sovente maestose del precedente lavoro, in questo sesto disco (<<The biggest thing we talked about with this record was to get rid of the 'fog' of High Violet>> Aaron Dessner su altmusic.com) in studio emergono alcune differenze (col passato, entro il disco), fin dal primo ascolto, evidenti.
In primis, di forma: quella di Berninger, e della sua voce ora maggiormente educata, controllata; con isterismi (nuove Mr. November non sono più possibili, ovviamente) per lo più normalizzati (con sporadici scatti nevrotici: su tutti, il finale di Sea of Love), linee nitide (ancor più in crescita rispetto alle già notevoli d H.V.); interpretazione, lungo il disco, impeccabile la sua non un reale complimento, una certa quota di fascino lasciata per strada è tangibile: spicca, in certi casi un po troppo morbida e limpida, tra arrangiamenti stratificati, o in (apparentemente) spoglie sad/torch songs (o meglio fun songs about death: a detta del frontman, filo conduttore nelle tematiche del disco).
Cè poi, qui, uneterogeneità di stili e idee notevoli (e una nutrita schiera di amici-collaboratori ad affacciarsi, in punta di piedi: tra gli altri, Sufjan Stevens, St. Vincent, Sharon Van Etten, Richard Lee Perry, Thomas Bartlett dei Doveman), ed una scaletta suddivisa idealmente in una prima parte più energica (immediate and visceral), rock (con lapice Sea of Love) ed una seconda maggiormente intima ("Hard to Find", "Humiliation", "Slipped", "I Need My Girl"), anche piano driven - l'eccelsa Pink Rabbits" (You didn't see me I was falling apart/ I was a television version of a person with a broken heart): ma nulla tocca, probabilmente toccherà le vette di eccellenza di una, per dire, Fake Empire). Nel raccoglimento e nel sentimentalismo più nostalgico ("I Need My Girl", "Slipped"), con uno stile meno cerebrale e calcolato (il confronto va sempre ad "High Violet"), i National sembrano d'altro canto tendere ad opere dal tratto grandioso, soprattutto decadente. E la gestalt, al netto, appare ancor più pop.
Almeno un brano, Heavenfaced (soluzione conclusiva di synth: altra importante, benché non proprio centrale nell'economia del disco, pseudo novità), molto semplicemente annoia; un altro paio, This is the Last Time (di ritmica sincopata, a sostenere un motivo piuttosto lineare) e Hard to Find (l'assenza, o meglio il ruolo davvero minimo di Bryan Devendorf appare forte perdita temperamentale; unica nota d'interesse, la linea vocale, splendida, pescata da Berninger) funzionano a strappi, vagheggiano in un anonimato difficilmente collocabile entro la rappresentazione del sound National. Nel mezzo, tante cose buone, non sempre compatte: Slipped (nel suo proiettarsi, accorato e assorto, in funzione dell'esaltazione del cantato); Humiliation (già "Sullivan": motorik su sfondo dreamy-ambientale; dalla chitarra, oltre la metà del brano, uno stile Greenwood riconoscibile); lintarsio di Fireproof, intrecciato al piano, e ad una elettrica contrappunto sulle ombre sentimentali di Berninger (You a needle in the hay/ You're the water at the door/You're a million miles away/ Doesn't matter anymore); la frammentazione (la chitarra), i giochi di vuoti e stratificazione sottilmente epica di una Need My Girl (I'm under the gun again/I know I was a 45 percenter then/I know I was a lot of things) su cui i nostri sembrano aver puntato da tempo.
Di continuità (per lo meno) qualitativa dobbiamo ancora parlare (la prima parte ne è dimostrazione piena): ché i National sappiano, come ieri, scrivere brani eccellenti è fatto incontestabile - solo il tempo, la sensazione per alcuni di questi cè, dirà se in capolavori potranno sbocciare.
Il disco prende il via dalle istantanee di raffinata disperazione (la dedica, pare, al fratello - il regista Tom Berninger) di I Should Live in Salt (già Lola): empatie che dovrebbero dirsi scontate (Don't make me read your mind/ You should known me better than this) e momenti di un rapporto (ripreso in un documentario, Mistaken for Strangers", in concorso al Tribecca Film Festival di questanno) sovente altalenante. I should live in salt for leaving you behind, più o meno, volontà di ricongiungersi ed espiare masochisticamente, ai limiti del dolore fisico, sensi di colpa del passato. Ma, a prescindere: da una chitarra acustica pulita prende piede unoscillazione nei tormenti di Berninger (splendida la sovrapposizione tra batteria e linea vocale, nelle strofe); con trasporto estremo si giunge ad un affondo (epica indie rock) tagliente e celestiale insieme.
Demons (I do my crying underwater/ I cant get down any further/ All my drowning friends can see/ Now there is no running from it/ it's become the crux of me/ I wish that I could rise above it/ But I stay down with my demons: splendido), primo singolo rilasciato, gira attorno ad un baritono anedonico, quasi parlato, che si rianima solo nell'ultima parte; maestoso lo stacco conclusivo, per intensità tanto quanto Looking for Astronauts lo era in Alligator. Dont Swallow the Cap (I have only two emotions/ Careful fear and dead devotion/ I can't get the balance right), monito bizzarro e sinistro (Tennessee Williams, ricorsivo nelle tematiche dei National: scoprite da soli il perché), è introdotta, su uno schema ritmico catartico, da trame fluttuanti e da uno splendido raddoppio vocale (luno rauco, demoniaco; laltro emotivo) - poggiato su un'insistente nota di piano, materializzata in senso melodico nei ritornelli e in coda.
In un "Trouble Will Find Me" in cui il sacrificio della batteria è servito ai National per donare un taglio estetico ad un paio di episodi ("Hard to Find", "Slipped"), Devendorf si concede comunque momenti di istintività (certo non è assente, in blocco, nel precedente disco: "Anyone's Ghost", "Bloodbuzz Ohio"; lo stesso Aaron Dessner riferisce, però, di come Bryan abbia avuto carta bianca sulle parti di batteria - ciò non è avvenuto, per tempistica e pressione da parte del gruppo, nel precedente High Violet) sì contenuta, benché canalizzata in dinamiche ammalianti. Prova ne sono, ad esempio, "Graceless", "Don't Swallow the Cap"), così come il nuovo singolo Sea of Love (nel video, si omaggiano in ogni dettaglio scenico i moscoviti Zvuki Mu), quest'ultima dalle nevrosi a più strati - nel riff (filtrato, pesante ma diretto); nelle traiettorie dapprima rigide (le strofe) e poi sregolate (i refrain) della batteria, esaltate nella rabbia (finalmente), in coda, da Berninger (I See you rushing now, tell me how to reach you/ What did Harvard teach you).
Graceless (già Prime: Put the flowers you find in a vase/ If you're dead in the mind it'll brighten the place), attacco (new) wave (il lavoro al basso di Scott Devendorf, mai così esposto) dal buon piglio melodico, applicata, nelle nevrosi di Berninger (Don't have the sunny side to face this/ I am invisible and weightless/ You can't imagine how I hate this/ Graceless), ad una dinamica ritmica di boxeriana memoria; "Pink Rabbits", ciclicità strascicata, spicca, lo si è già detto, nell'ultima parte del disco - contenendo implicitamente in sé, inoltre, un'idea di ballata tutto sommato deviante dal percorso artistico dei nostri.
Concludendo, "Trouble Will Find Me" potrà rivelarsi una delusione, immagino cocente, soprattutto per quanti, questa transizione, la vivono come completamento di un percorso di denaturazione dello stile National - non trovando, specie qui, la stessa quota di compattezza, omogeneità stilistica di capolavori quali "The Boxer" e (in misura non molto minore) "Alligator" . Potrà esaltare, ci si aspetta, chi i National li ha conosciuti a partire da "High Violet" - o quanto meno, coloro i quali, via quest'ultima release, percepiranno un'evoluzione (ma in continuità qualitativa - pur nelle sostanziali divergenze, concettuali e di stili) dal precedente disco.
Tra episodi davvero ispirati ("Don't Swallow the Cap", "Demons", "Graceless", "Pink Rabbits", "I Should Live in Salt", "Sea of Love") e altri precari, chi scrive si sbilancia un po' col voto, benché si posizioni idealmente, consapevole, tra i due estremi.
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