R Recensione

4/10

The Twilight Sad

Fourteen Autumns And Fifteen Winters

Grande risalto per l'esordio dei Twilight Sad, formazione a quattro, scozzesi, di Glasgow per l’esattezza. Dopo solo una manciata di concerti, a quanto si mormora memorabili per inventiva e per ampio uso di strumenti classici, computer programming e diavolerie varie, il gruppo si chiude in uno studio e autoproduce un demo di quattro brani recapitandolo alla Fat Cat records: da lì all’esordio il passo è breve.

Ad accoglierci nella traccia d’apertura Cold Days from the Birdhouse troviamo l’accento pesantemente scozzese del frontman (e deus ex machina) James Graham, unica peculiarità di rilievo del disco, ma anche, per chi scrive, fonte di un certo imbarazzo: l’impressione è quella di sentire una sorta di incrocio tra il bidello Willy della versione inglese dei Simpson e Billy Bragg.

E forse questa bizzarra (e non del tutto piacevole) sensazione auditiva va ad inficiare irrimediabilmente il giudizio di chi scrive. Fatto sta che, pur riconoscendo al gruppo un abile uso di trame sonore sovrapposte con abilità, una certa vena ipnotica ed una solennità a tratti intrigante, l’impressione è di ritrovarsi di fronte all’ennesimo album ruffianamente in odor di shoegaze: deflagrazioni chitarristiche alla My Bloody Valentine come se piovesse quindi, ma anche aperture space che possono lontanamente ricollegarsi ai connazionali Mogwai e linee melodiche e vocalizzi Morrisseyani .

Il canovaccio, già di per sé non rivoluzionario, si ripete stancamente e inesorabilmente per l’intero album, alternando quiete e rumore, inscenando sfuriate elettriche e barriere di suono che si innalzano meccanicamente con moto alternato, sfruttando la formula (peraltro già usurata) fino allo sfinimento: e giunge quasi come una manna dal cielo la bella titletrack strumentale, con i suoi lievi tocchi di piano e le sue distorsioni nebulose.

Epilogo di un disco in cui l’abilità nella scrittura delle lyrics di Graham, pur notevole, non riesce a riscattare una vena melodica eccessivamente monocorde, che le barriere soniche alzate sembrano quasi desinate a celare, più che valorizzare. Un’ipotesi sensata è che in studio non si sia riusciti a catturare quella magia live che i ben informati riportano come punto di forza della band. Resta il fatto che, onestamente, difficilmente ci si troverà a strapparsi i capelli per questo triste crepuscolo.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Marco_Biasio (ha votato 3 questo disco) alle 22:19 del 22 agosto 2008 ha scritto:

Questi mi irritano all'inverosimile. Ascoltato mezza volta e buttato nel cassonetto. Non ne sentirò oltre modo la mancanza. Bravo Paolo

The_Boy_Racer (ha votato 7 questo disco) alle 14:46 del 12 dicembre 2008 ha scritto:

Mi era sfuggita questa recensione. Non sono per niente d'accordo: per me questo è un buon disco e un esordio davvero promettente, anche se effettivamente alcuni arrangimanenti appensantiscono un pò i pezzi migliori. Da questo punto di vista molto meglio l'EP uscito qualche mese fa "Here, It Never Snowed. Afterwards It Did", davvero bello

Truffautwins (ha votato 8 questo disco) alle 14:57 del 23 gennaio 2019 ha scritto:

Un otto per rendere giustizia. Dai, siamo seri, vedo dei 3 e dei 4. Questo è un signor disco e chi se ne frega dell'accento marcatamente scozzese.