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R Recensione

4/10

The Walkmen

Lisbon

Chi ha rubato la marmellata?

Qual è la differenza tra Stereogum e Novella 3000?? E tra Pitchfork e Chi??

Assolutamente nessuna.

Entrambi sono vampiri assetati d’anteprima, degli Edward Cullen a sei teste che cercano di contare i peli sul culo di Belen prima di tutti e di stilare articoloni in anteprima sul pre-ascoltoanteprimaprewievassoluta di band indi(e)fese, recensite da poveri saccenti ind(i)efessi.

A cosa serve tutto questo? Chi si nutre di ansia da anteprima?? A chi interessa sapere quante volte Hamilton Leithauser è andato al cesso durante le registrazioni??

A tutti, ovviamente, perché facciamo schifo e ci subiamo le informazioni che meritiamo.

Internet ha disintegrato il gusto e la poesia dell’attesa, di mesi passati a carpire notizie con devozione e delicatezza su riviste e siti di scavo. Ora non serve più nemmeno scaricare un disco (comprarlo, e per giunta in vinile, è roba da paleozoico musicale), ora i dischi si leggono, ed oltretutto in maniera sommaria e superficiale.

Leggere un disco; che ossimoro triste.

Ma ora veniamo a noi, ed all’ennesimo gruppo indie (che Dio fulmini in questo istante chi ha inventato e stuprato questo termine), spolpato in netto anticipo dalle webzine indie (si, mi sto divertendo).

I Walkmen, e più precisamente il buon Hamilton già citato sopra, sono i figli illegittimi di Robert Allen Zimmerman. Non serve un test del DNA fatto su un capello strappato di soppiatto durante il sonno per capirlo, basta il timbro da naso tappato dal polverone di Woodstock mutuato dal giovane belloccio Leithauser. Intaccato dal carattere Y dominante del vecchio Bob, il giovane frontman della band newyorkese torna con i suoi amici di scorribande rock cantautorali, dopo l’ottima conferma di You & Me, con un album (Lisbon) che oscilla tra alti e bassi come le pagelle del fantacalcio, passando per l’intervallo fugace del piacere (Angela Surf City è veloce, trascinante ed emozionante come il quartetto ci ha viziato).

Dal vizio, e dalla buona e malsana abitudine, escono fuori le prime pecche, o meglio le prime sfaldature. Vi è un alone di incompiutezza fra le pieghe sconnesse di Lisbon, a partire degli echi scomposti ed incompiuti di Follow The Leader a cui segue Blue As Your Blood, vera chiave di volta per comprendere un album così stazionario ed immobile nella sua monotonia stazionaria.

Ingabbiati dalle loro stesse sonorità peculiari, i Walkmen non riescono ad uscire fuori dai propri stilemi ormai ripetitivi ed inconcludenti. La “bandistica” Stranded sembra messa in loop continuo per 4 minuti e mezzo, mentre Victory tenta di alzare il tiro senza raggiungere i climax emotivi caratteristici delle creazioni precedenti. E si continua così, con giochini indie da bamboccioni redenti, che si divertono a cucire ballate sghembe con colla vinilica ed acqua diluita in parti uguali, fragili sotto la trazione costante del tempo.

Un gruppo in fortissima ascesa, con l’ispirazione e la spontaneità in discesa. Proprio come accade alla marasma di scialbi prodotti in serie della vecchia fattoria Pitchfork.

Quante bestie ha Zio Tobia “ia-ia-oooo”!

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 5 voti.
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C Commenti

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REBBY alle 12:00 del primo dicembre 2010 ha scritto:

Sbaglierò, ma a me il cantato più che Dylan mi ricorda Casablancas. E alcuni brani che trovo più godibili (Juveniles e Angela surf city in particolare, ma anche Blue as your blood, Victory e Woe is me) mi sembrano una versione più tranquilla degli Strokes. In altri, per i miei gusti più noiosi, le melodie, mi pare, pescano dal folklore americano più istituzionale e sempliciotto (Follow the leader, Stranded, All my great design, While I showel the snow). Fuori da questi due schemi Torch song, che sembra provenire da un periodo a cavallo tra i '50 e i '60 (lo fosse veramente sarebbe un hit mica da scherzo) e la più complicata (europea?) title-track. In sintesi, a mio giudizio, siamo tra il 5,5 e il 6,5, a seconda del grado di cattiveria che mi anima.