Titus Andronicus
Local Business
La genialata dei Titus Andronicus nei due dischi precedenti era stata quella di cantare attraverso la sua stessa tradizione lAmerica che ha distrutto se stessa. Se in The Airing of Grievances e in The Monitor la band capitanata da Patrick Stickles suona reazionaria, lo fa secondo un calcolo a suo modo formidabile, e che ne ha decretato il successo. Rockenrolle, folk, country e punk per dire allAmerica, rifacendole il verso, che è morta. Local Business, con la sua copertina da disco classico e coca-cola per lindie rock, prosegue la battaglia, ben conoscendo il proprio destino di sconfitta. Il problema è che, per buoni tratti, perde davvero.
Meno ambizioso delleccellente e stortissimo debutto (per me, il loro capolavoro) e di quel concept generazionale imponente che era The Monitor, questo terzo disco segna uno stallo sia nei testi, riempiti di autocitazioni che rischiano di diventare masturbatorio rimasticamento, sia nella resa sonora, più pulita rispetto agli scorsi lavori, e ancor più in secondo piano rispetto allimpeto del cantato. Stickles vomita parole senza sosta, da instancabile predicatore esistenzialista e nichilista, urlando e stonando, macinando la chitarre che sotto a lui, spesso, sembrano andare con il pilota automatico.
La formula funziona dove si avverte maggiore continuità coi primi due dischi: vedi Ecce homo, la cui devastante verbosità, puntellata da calembour depressivi e rime eccentriche in un mini tour senza speranze della giovane America («I was born into this now I'm dying because of it»), porta Heidegger al college («I Know its a lot more than just being bored, I know its nothing more than just being born»); vedi Still Life With Hot Deuce On Silver Platter, nel suo ritmo frenetico poi svolto in un rock scoraggiato; o, ancora, Upon Viewing Oregons Landscape With the Flood of Detritus, con glockenspiel e il solito Springsteen stravolto da angry young men sfatti dagli anni buttati nel cesso («I gave my youth to yelling at rivers that refused to flood with angry tears / Now abundant beers await to erase redundant years»).
Qua i Titus tengono duro, fanno i tetragoni e assieme travolgono, rimangono solidi against them e assieme ti vengono addosso con la loro furia cazzona (e colta). E se la cavano pure quando mettono i violini (In A Small Body) o intonano nuovi inni provinciali (In A Big City).
Altrove però perdono, prima ancora che la scrittura, la misura. Alcuni pezzi vengono prolungati alleccesso (My Eating Disorder, che penzola tra hard rock e post punk con testosteroni, lafflizione strascicata di Tried To Quit Smoking), altri sono troppo scorciati, fino a diventare insipidi riempitivi che non aggiungono nulla al quadro (Food Fight, Titus Andronicus vs. the Absurd Universe (3rd Round KO), ma anche (I Am the) Electric Man). Qua Local Business, molto semplicemente, annoia. Risulta al contempo troppo cerebrale e troppo votato alla resa live casinista-populista, secondo una demagogia engagée che fa male al disco e lo scompatta.
La cosa positiva è che di rabbia, i Titus Andronicus, ne hanno ancora molta, e ben indirizzata, in parte, verso se stessi, come deve. Il global business non li ha né imbellettati né sfregiati troppo. Sarebbe un peccato se, per eccesso di nichilismo, ci pensassero a farlo loro.
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