Titus Andronicus
The Airing Of Grievances
Titus Andronicus è, oltre al titolo di una tragedia giovanile di Shakespeare tutto sommato poco riuscita, il nome di una band del New Jersey che nelle proprie canzoni cita Camus, Bruegel e la Bibbia, e il cui cantante ostenta uno stupefacente desiderio di morire. Nella corroborante “No Future Part I” si legge: «There is not a doctor that can diagnose me. I am dying slowly from Patrick Stickles Disease». I Titus Andronicus sono cinque. Il cantante si chiama Patrick Stickles.
Di questi tempi un portamento sfacciatamente nichilista non fa più di tanto notizia, com’è giusto che sia. Fa più notizia che una band di giovani provinciali riesca ad estrarre dal cilindro un mix sonoro originale e sbalorditivo restando nell’ambito di un garage rock grezzo fino al no-fi nel quale essere originali non è cosa facile, soprattutto se metti assieme Nirvana, Pogues, Strokes, Bright Eyes, Neutral Milk Hotel e molto altro ancora, senza di certo andare per il sottile in fase di registrazione. Quattro scoccettate qua e là, e via. E ne esce un lavoro che lascia il segno.
La caratteristica principe dell’attitudine vocale di Stickles è che urla appena può; ossia, quasi sempre, fin da subito. Persino il buon Conor Oberst, presente senz’altro nell’interpretazione mugugnante e tremula di molti passaggi, suole cominciare i pezzi con toni depressi piuttosto che nevrotici, passando a questi ultimi solo quando, dopo qualche strofa, la collera cresce. Stickles no: svacca appena il pezzo parte, non si contiene. Fa eccezione “Fear And Loathing In Mahwah, NJ”, la cui lunga coda strumentale con fiati sembra un doveroso omaggio ai Neutral Milk Hotel.
I testi sono un mix di frasi costruite per stupire i borghesi («Your life is over!»; «There is not a medication that can cure what's ailing me. The only treatment they offer is to hang me from a tree») e di squarci di autocoscienza giovanile a tratti lancinante («There is nothing I've ever done I didn't learn to be ashamed of»; «I was born into self-actualization, I knew exactly who I was, but I never got my chance to be young»). Notevole, in particolare, il modo in cui il Camus de “Lo straniero”, nel pezzo finale a lui intitolato, guidi a una lettura straniante e impietosa della vita del giovane americano («How weary, stale, flat and unprofitable it is to be young, dumb, and have lots of money; [...] even my own mother will tell you I am an asshole»), che vorrebbe nascondersi ma non può («if you wear a mask, they can still read your license plate»), e quindi si sbronza una sera sì e una anche («Because the more we think, the less it all makes sense, tonight we will drink to our general indifference») e si dedica a fare a tutto ciò che non potrebbe fare («we don't give a fuck about nothing and we only want what we are not allowed»). Il tutto in un impasto di punk e new wave memorabile (con finale di fisarmonica!).
E poi ci sono tanti Strokes, soprattutto per il cantato-urlato-effettato alla Casablancas (“My Time Outside The Womb”), c’è Shane MacGowan che canta gli Arcade Fire con Cobain alla chitarra (“Joseth Of Nazareth’s Blues”), c’è l’isteria hardcore messa in ghingheri new wave (“Arms Against Atrophy”), del sano punk (“Titus Andronicus”), un pezzo stortissimo il cui ritornello sembra la rivisitazione destrutturata e rabbiosa di “Jesus Don’t Want Me For A Sunbeam” (“Upon Viewing Brueghel’s ‘Landscape With Fall Of Icarus’”: momento più geniale del disco) e dello shoegaze a buon mercato nei molti finali allungati.
Shoegaze, sì, anche se i Titus Andronicus in “No Future II: The Day After No Future” dichiarano: «This isn't shoegaze - this is suicide». Un fan, tuttavia, sulla loro pagina My Space, chiosa: «Se dovessi dare retta a questo disco, mi suiciderei; ma se mi suicidassi, non potrei più ascoltare questo disco». Inappuntabile.
Tweet