Toy
Toy
I Toy sono un quintetto londinese, noto da oltre un anno e chi segue le gesta degli Horrors (sempre siano lodati), che li han tirati fuori dal sottobosco e se li son portati come gruppo spalla in tour. La band di Faris Badwan si conferma così faro centrale dell'attuale indie-rock britannico: hanno generato una propria nicchia con band pronte a condividerne la missione (Chapel Club, S.C.U.M, ora i Toy) e hanno abbastanza visibilità per lanciarle. Senza tirare in ballo la loro continuità a livello creativo, che si sta mostrando solida come poche.
Non essendo un trattato sugli Horrors, torniamo ai Toy: come descriverli? C'è probabilmente chi tirerà fuori le solite etichette: shoegaze, post-punk, indie-rock. E' curioso il trend critico attuale: ci sono settori come il metal o la scena elettronica in cui a ogni minimo spostamento di traiettoria si inventa un nuovo genere. Ci sono sottogeneri con nomi talmente artificiosi e fittizi che riguardano praticamente solo due o tre band. C'è poi l'indie-rock, in particolare quello britannico, che viene costretto all'immobilità. Questo nome fisso, eterno, che viene appiccicato a prescindere a qualsiasi band alternativa che faccia canzoni, in particolare se chitarristiche: dopodiché a seconda dei richiami si può scomodare facilmente lo shoegaze o il post-punk, come secondi indicatori.
Nessuno che finora abbia tentato di inquadrare quanto di nuovo esiste in Gran Bretagna da qualche anno a questa parte: una sorta di stagione emotiva del rock britannico, caratterizzata da un forte pathos interpretativo, deflagrata in via definitiva circa tre anni fa quando il disco dei White Lies debuttò al primo posto in classifica (in una delle prime copertine di NME con i White Lies campeggiavano non a caso gli stessi S.C.U.M). Questa enfasi emotiva densa di romanticismo ha sostituito l'isteria della stagione appena precedente, quella di Klaxons e Late of the Pier, dei loro scatti frenetici e delle loro vocine destabilizzanti. In questa nuova visione (che ovviamente non è omnicomprensiva: c'è chi come gli Arctic Monkeys continua per la propria strada incurante dei mood più trendy), i Toy si ritagliano un posto particolare.
La band rivelò la propria esistenza con un singolo di atomica potenza, escluso dal disco in questione ma che ci vediamo costretti a menzionare in quanto rappresenta il loro brano-chiave: "Left Myself Behind", pubblicato su vinile nell'ottobre dello scorso anno, nonché su Youtube con un video palesemente omaggiante quello di "Sea Within A Sea" degli Horrors. "Left Myself Behind" è una scarica di adrenalina: un incessante ritmo kraut fa da propellente a un flusso di chitarre distorte prodighe di mille screziature. Molteplici riff escono e rientrano nel marasma generale, rimpolpati dai ruvidi flussi dell'elettronica analogica, mentre piccoli droni si protraggono, acuendosi in fischi sibilanti o decrescendo in radiazioni di fondo. La tavolozza dei colori è impressionante, mentre la voce del cantante Tom Dougall si dipana con il tono basso e distaccato di un Jarvis Cocker a cui è passata la voglia di scherzare. Terminata la parte cantata la band si lancia in una coda ossessiva ripetuta fino allo spasmo, una corsa a perdifiato degna delle grandi jam shoegaze (quelle dei Ride, o dei primi Verve). Proprio la voce di Dougall rappresenta l'anomalia dei Toy: è l'uomo pacato in un momento del rock britannico in cui, come si diceva, quasi tutti i cantanti sembrano struggersi e enfatizzare i propri sentimenti. Dougall lascia invece che l'elemento epico venga esplicitato dalla mole imponente del background strumentale (potente quanto quella di Chapel Club e S.C.U.M, ma con l'elemento kraut a aggiungere un'ulteriore sensazione di catarsi): interpreta sì con una voce calda e densa di ombre, ma senza mai eccedere (qualcuno dirà che è "poco convinto", ma ascoltando più volte il disco la sensazione è che qualsiasi altra maniera di affrontarlo sarebbe risultata invadente).
Pur essendo rimasta fuori dall'album, "Left Myself Behind" ne marca profondamente i solchi: due dei brani più belli ne ricalcano infatti la struttura. Sia la marcia mid-tempo "Dead and Gone", sia la cavalcata kraut spaccaossa "Kopter" (nomen omen) partono infatti con i loro andamenti ipnotici asserviti alla forma-canzone, per poi deflagrare in gorghi surreali dove le chitarre annientano la forza di gravità e il battito sottostante sembra andare in loop perpetuo. Si tratta probabilmente dei due brani più caratterizzanti di questo disco extra-ordinario, ma i restanti non sono affatto avari di suggestioni altrettanto intense: l'iniziale "Colors Running Out" con il suo mood armonioso che rimanda alle piccole sinfonie pulsanti dei vecchi Harmonia; lo strumentale "Drifting Deeper", un intenso space-rock con l'elettronica e i droni chitarristici a riempire alla perfezione i vuoti lasciati dall'assenza della melodia vocale; il singolo "Motoring", ormai un piccolo classico del rock alternativo inglese con il suo riff contagioso e una melodia talmente accattivante che a malapena i Marion (i più pigri avrebbero detto i Placebo, ma chi scrive soffre di allergia per Brian Molko); la meravigliosa ballata con tastiere orchestrali "My Heart Skips A Beat", in cui Dougall può finalmente dismettere il mood da foto in bianco e nero con sigaretta, e lasciarsi andare a un tenero abbraccio, svelato senza remore sin dal titolo.
Per gli eventuali acquirenti: di "Toy" è uscita anche un'edizione deluxe, contenente sei brani registrati dal vivo per la BBC.
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