R Recensione

7/10

Two Gallants

Two Gallants

The great white hype”. La grande speranza bianca. Come i connazionali Jim Jeffries e James J. Braddock, i due “dubliners” di San Francisco incrociano ancora una volta i guantoni contro i pregiudizi che precludono il passato alla modernità, segregano le origini all’occhio della posterità. Nel loro carniere da errabondi trapper musicali (tipo, non so, Robert Redford in “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”, avete presente?) i racconti degli hobo seduti intorno al fuoco sui loro cuscini di pietra si mescolano alle imprese dei punk nei “blocchi” di periferia, le tormente “serotoniniche” del grunge scompaginano antiche brossure folk, l’indie rocklargisce piombo rovente ai vecchi fucili arrugginiti del sud secessionista.

Ok, giochiamo a carte scoperte: per me recensire un disco dei Two Gallants, in questo preciso periodo dell’anno, assume quasi i contorni di una ricorrenza propiziatoria. Perché li considero la più bella novità emersa nella scena alternativa americana dal 2004 ad oggi. E perché sul precedente What the toll tell (da queste parti elevato al soglio di disco dell’anno 2006, sebbene con qualche mese di ritardo) scrissi la prima delle mie paginette apparse qua sul Benemerito. A titolo squisitamente sentimentale e personale, dunque, la chiave per entrare a far parte di questo piccolo cenacolo di miei pari e condividere elettive affinità (e diversità) musicali. E con ciò colgo l’occasione di ringraziare tutti per la fortuna e l’opportunità.

Basta, d’accordo, so già cosa state pensando: “Ma perché da un taglio alla captatio benevolantiae e arriva al sodo, una buona volta?”. Vi accontento subito: dopo il pacato EP The scenery of farewell del giugno scorso, i Nostri licenziano l’attuale omonimo che, scomodando l’araldica, sta al full-lenght antecessore come Harvest a Tonight’s the night o Let love in a The first born is dead. Mettiamola così: se è la prima volta che li ascoltate di certo non rimarrete delusi, non sono molti, infatti, i gruppi in circolazione capaci di conficcare le dita nelle ubertose zolle della loro terra per carpirne bulbi e frutti così genuini e saporosi. Ma se dobbiamo dirla tutta, stavolta, accanto ad un songwriting invidiabile per maturità compositiva e passione (ri)evocativa (data anche la giovane età dei due musicisti, classe 1981), traspare il desiderio di riporre, almeno in parte, le soluzioni stilistiche più ibridanti e ardimentose. In altre parole: il finger-picking prevale sulle sfuriate reel-core, il gospel sullo scream, l’armonia sulla dissonanza, la continuità sulla variazione. E in generale le canzoni si atrofizzano in strutture piane dal minutaggio ben più contenuto. Radio o video-friendly? Lasciamo perdere le supposizioni maliziose e addentriamoci, piuttosto, nei particolari.

The Deader e Miss Mery sono power ballad campestri in cui tutti i tasselli cari al gruppo combaciano alla perfezione: gli arpeggi scarni e contorti, la melodia ruvida e sanguigna (che tracima in un chorus cantabile), il lavorio ininterrotto della ritmica che vira, a momenti, in un esercizio di prog acustico. The hand that hold me down sembra uscita dalla facciata acustica di Rust never sleeps (l’armonica a bocca ricorda perfino un po’ The Thrasher), acre, strozzata, nasale (“cobainiana” verrebbe da dire) irruzione di lancinanti nevrosi urbane che riecheggiano nelle gole sperdute della Catena Costiera. In Trembling of the rose, però, nonostante l’elegante afflato melodico, Stephens si sbrodola addosso un po’ troppe romanticherie (“vabbè, ragazzi, spezzamo ’n bo’ de cori!”, come direbbe la Lorelyn de “I Simpson”!) e si avverte disperatamente la mancanza dell’asciutto vigore di Vogel. Reflection of the marionette è strana, magari un po’ ambigua: una strofa alla R.E.M. di Automatic for the people cede fortunatamente il passo a quegli accordi asprigni e alle cavalcate sinusoidali che, piaccia o no, rendono inimitabile il loro sound. Ribbons round my tongue è un ossuto, commosso spiritual (semi)dylaniano (un non so che di Just like a woman). Con Despite what you’ve been told, un randagio “grunge’n’western” da Drugstore Cowboys alla Gus Van Sant, il gruppo torna finalmente ad intingere le sue frecce nel curaro di What the toll tell. Fly low carry on crow ha l’incedere funereo, rassegnato e baritonale di un Johnny Cash col sole scacchi riflesso sulla faccia o di uno Stephen Crane in stress post-traumatico. My baby’s gone, che è il mio pezzo favorito, spacca un potenziale gospel in fulminei stop’n’go, sulfuree spirali di cassa e rullante innescate da Vogel; mentre la chitarra di Stephens si fa screziare dalla scabra ala della distorsione nel travolgente finale che sembra la versione “gringa” di un baccanale dei Pavement.

V Voti

Voto degli utenti: 7,6/10 in media su 8 voti.
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SAROCK 9/10
REBBY 6/10
rubens 8/10
londra 8/10
rael 6/10

C Commenti

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SAROCK (ha votato 9 questo disco) alle 17:34 del 16 ottobre 2007 ha scritto:

gran disco e gran gruppo...bella recensione

SteveRogers (ha votato 7 questo disco) alle 11:21 del 17 ottobre 2007 ha scritto:

così così

L'ho trovato inferiore al precedente, che mi sembra contenere tracce suonate con più passione ed ispirazione rispetto a quest'ultimo lavoro. Questo disco è da 6,5... ma visto che My baby's gone è veramente bella (l'unica canzone significativa) arrivo a dare 7.