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R Recensione

8/10

Ventura

We Recruit

Non fatevi ingannare dalle etichette che circondano i Ventura: “gruppo indie-rock che viene dalla Svizzera” può voler dire molte cose, e francamente nella mia mente sono quasi tutte negative (con tutto il rispetto per gli svizzeri né!). In realtà i Ventura sembrano usciti dalle peggiori officine americane di inizio anni '90, combinando un intruglio micidiale di noise, post-core, indie e math-rock.

Non è un caso che dichiarino la loro passione per gruppi come Helmet e Hum, e che combinino esplicitamente il meglio delle sfuriate Sonic Youth con la carica dinamitarda degli Unwound (l'eccezionale Why are you not a coin ad esempio). Ma sarebbe riduttivo classificare i Ventura come un gruppo puramente revisionista e “vintage”.

Prendiamo l'iniziale Brace for impact, dalla partenza compassata ma che in crescendo esplode in un marasma che incrocia i già citati Unwound con la maestria dei Masters of Reality. E' una capacità, questa di combinare robusti wall of sound e melodie vocali al limite del pop, che permette di proporre paragoni forse discutibili, come quelli che voglio usare per descrivere Twenty four thousand people: praticamente la verve sonoramente violenta di un gruppo storico come i McLusky (straripante l'incedere della batteria) che si accompagna alla carica low-fi, all'impatto emotivo delle chitarre e al canto di un Stephen Malkmus (Pavement) dei tempi d'oro.

Per chiudere il quadro descrittivo non si può non rimarcare l'acquisizione di schemi ritmici math spesso rigidamente ancorati a geometrie robuste ma ben nitide (forte l'influenza di un gruppo come i Don Caballero), fattore che emerge bene in brani quali I always said he was weird, I quite like it here o All the reasons not to.

E come non citare in tutto questo marasma i Trail of Dead, che sull'intreccio tra noise-core e pop ci hanno costruito una carriera? Le loro splendide melodie si ritrovano un po' dappertutto nel disco, come nel sublime finale di Demons, in cui spuntano addirittura linee vocali che rimandano in parte al Canterbury sound (Dio mi fulmini se non sembra che canti Robert Wyatt!).

Rimangono una paio di brani notevoli come Will kill for love e With ifs, peraltro tra i più interessanti per varietà stilistica: il primo segna il momento più noir del disco, con un testo che recita il titolo in maniera funerea mentre si fa largo uno scarno blues elettrico. È tutto calcolato comunque, e la tensione è costruita sapientemente in attesa del momento in cui il brano deve esplodere d'intensità.

Il secondo è il pezzo più shitgaze del lotto, senza per questo ripudiare potenti melodie calate in brutali riverberi. With ifs si fa ricordare soprattutto per la devastante ripartenza sonora che scatta al minuto 2,28. Il resto è un finale lasciato a riffoni semplici ma robusti, che riempiono lo spazio con una decisione e una violenza raramente trovabili in giro.

E in definitiva se uno ci pensa un attimo è davvero difficile trovare punti deboli ad un disco così compatto e solido. Fateci un pensiero.

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Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

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tarantula (ha votato 7 questo disco) alle 15:06 del 7 novembre 2010 ha scritto:

Ascolto dopo aver letto la recensione ed è chiaro che, per 4 stelle, mi aspetto qualcosa di grande! Parte l'album e "Brace for impact" è una mazzata in pieno viso per quel suo giocare sporco senza arrivare subito al dunque, un brano che, da solo, forse vale un disco. Ed infatti, subito dopo troviamo le buone "With ifs" e " Twenty Four Thousand People" ma senza troppa personalità a distinguerle dagli altri che hanno già attraversato gli stessi sentieri...e molto prima!

Nel mezzo del disco, il vuoto è riempito solo dalla discreta "Will Kill for Love". Bisogna attendere il settimo brano "All the Reasons Not To" per avere la 2° vera mazzata in faccia. Ottima!

Buon finale con "Demons".