We Are Scientists
Brain Thrust Mastery
Rimasti in due, dopo la dipartita del batterista Michael Tapper, Keith Murray e Chris Cain, meglio conosciuti come We Are Scientists danno alle stampe il loro secondo album, dopo il fortunato "With Love and Squalor": e delle sonorità indie-rock di quell'album non è rimasto molto. Mentre il debutto conteneva infatti singoli del calibro di "Nobody Move, Nobody Get Hurt" e "The Great Escape", mancano in questo "Brain Thrust Mastery" brani così adatti alle radio, fatta salva forse per l'orecchiabile "After Hours". Se da un lato infatti le sonorità qui sono decisamente più pop, dall'altro ciò non si traduce in un maggiore appeal commerciale dell'opera, anzi: per il gruppo sarebbe stato senz'altro più redditizio continuare sulla strada tracciata dall'album precedente.
Ciò che sorprende di quest'opera è l'uso massiccio di sintetizzatori, che spesso conferiscono alle canzoni sfumature anni ottanta; e i testi riflettono una certa malinconia e disillusione. "We all recognise that I'm the problem here", ripete ossessivamente l'iniziale "Ghouls", cupa e ripetitiva; "Let's See It" sembra un pezzo dei Killers, coretti compresi; e appare subito chiaro come la produzione a tratti troppo pulita del disco penalizzi i brani più emozionanti dell'opera, come accade anche in "Tonight". Eppure, stranamente, i richiami dance di "Lethal Enforcer" suonano certo derivativi, ma anche sinceri: come se il duo americano avesse finalmente deciso di suonare ciò che più desidera distinguendosi dagli innumerevoli cloni degli Strokes, ai quali erano stati forse troppo frettolosamente paragonati.
La dolce "Spoken For" è uno dei pochi momenti di calma del disco; il glam di "Altered Beast" fa quasi sorridere, mentre l'adrenalinica "Chick Lit" è particolarmente riuscita, con il suo curioso mix di Duran Duran e chitarre distorte. "That's What Counts" rivela una volta di più, se ce ne fosse bisogno, che è il revival new wave ciò a cui guarda il gruppo: un pop-rock che di certo farà storcere il naso a molti, ma che se non altro non ha particolari pretese se non intrattenere l'ascoltatore. Il rischio è che la scelta di rinunciare all'energia degli esordi lasci il gruppo senza un target preciso: troppo rock per i palcoscenici mainstream, troppo compromessi per gli indie duri e puri. Eppure, non necessariamente il disimpegno e il citazionismo implicano un giudizio negativo: si può però rimproverare al gruppo di non aver avuto fino in fondo il coraggio di seguire le proprie scelte, come dimostrano "Impatience" e "Dinosaurs", che provano a ricreare con scarsi risultati l'atmosfera spensierata degli episodi più riusciti del disco precedente.
Insomma, come dicono in "Let's See It", "I realize that I'm just naturally inclined to go and let you down": senz'altro i We Are Scientists hanno deluso alcuni fra i loro fan, ma è da apprezzare il tentativo (non dissimile da quello dei Dandy Warhols solo pochi anni fa) di rinunciare alla suggestione di ricalcare i successi passati per aggiornare invece ai suoni d'oggi le melodie di venti anni fa; se si è in cerca di buone melodie, anche se non memorabili, questo disco funziona alla perfezione; se si cercano temi profondi e sonorità innovative invece è meglio tenersi alla larga.
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