We Were Promised Jetpacks
These Four Walls
Ascoltando il debutto dei We Were Promised Jetpacks ci si rende conto di almeno due cose: 1) perché gli inglesi prendano per i fondelli gli scozzesi per il loro accento durissimo (i WWPJ vengono da Edimburgo) e 2) come il rock sopra il vallo di Adriano abbia sempre un retrogusto burrascoso e malinconico che lo distingue da quello propriamente inglese, spesso salvandolo dalle convenzionalità di più largo consumo. “These Four Walls”, rispettando cliché minori, guadagna un suo perché.
I pezzi sono spesso articolati sullo stesso canovaccio: concitati arpeggi di elettrica, batteria nervosa e basso secco preparano, in un clima mediamente frenetico e inquieto, solidi crescendo dal sapore quasi post rock, ma che mantengono saldo il legame con un revival wave danzereccio tutto ‘00 anche grazie agli anthem ripetuti con una certa insistenza dal leader Adam Thompson. I primi U2, i conterranei Frightened Rabbit (amici, peraltro, dei We Were Promised Jetpacks, nonché loro sponsorizzatori presso la Fat Cat), e un mix di indie rockers britannici più o meno recenti (Bloc Party, The Futureheads, i Whipping Boy a recuperare anche i ‘90), vengono assimilati in un impasto mai troppo manualistico.
A ben vedere è la sezione ritmica il vero punto di forza della band: la sovresposizione della batteria sembra dettare la misura e la sostanza dei brani in più di un’occasione: esemplare “Short Bursts”, in cui la costante tensione mantenuta dal battito convulso dei tom crea una frenesia palpitante, spesso toccata in altri episodi (“Roll Up Your Sleeves”, che può ricordare i New Order più chitarristici di “Low Life” per la foga melodica delle chitarre).
È un’epica forsennata e disperata quella dei We Were Promised Jetpacks, legata anche al tono vocale spesso dolente di Thompson – se qualcuno conosce i danesi Saybia ce li sentirà parecchio: numerose le affinità –, con il polo della dolcezza toccato solo di rado: “Conductor” (i Bloc Party hanno imposto un loro modo di fare elegia) e “An Almighty Thud”, coda acustica un po’ incongrua, sono, assieme al finale di “Roll Up Your Sleeves”, le uniche concessioni in tale direzione.
I pezzi più riusciti sono altri, e sono quelli che evitano lungaggini strumentali vagamente ambiziose che qua e là fanno scadere la qualità del lavoro: “It’s Thunder and It’s Lightning” e “Quiet Little Voices” partono pressoché dallo stesso arpeggio per climax emotivi avvolgenti che incidono, mentre “Ships With Holes Will Sink” propone un buon groove da club rock – che è poi quanto da questi ragazzi di Scozia è bene chiedere. Tanto che forse, dopo qualche ascolto, ci si può rendere conto anche di una terza cosa: che “These Four Walls” è un buon disco.
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