White Lies
Big TV
La scena alternativa britannica dell'ultimo decennio può essere divisa in due momenti ben distinti. Prima l'ondata post-Strokes, durata più o meno dal 2003 al 2007, a suon di chitarre scheletriche e produzioni dal suono asciutto: Franz Ferdinand, Bloc Party, Razorlight e via dicendo. Poi quella epica entrata in vigore intorno al 2008-2009, con suoni espansi, utilizzo massiccio dell'eco, impeto romantico e canto a polmoni spiegati. (Qualcuno farà notare che in mezzo, proprio durante il passaggio di testimone, è rintracciabile anche la parentesi nu rave: per quanto brillante fu però troppo breve e circostanziata per poter ambire a una reale rilevanza storica).
I White Lies rappresentano probabilmente la band che ha segnato il momento di svolta più di qualunque altra, sin da quando apparvero sulla copertina del New Musical Express nel febbraio del 2009, a capo di un presunto movimento neogotico composto da loro, S.C.U.M, Ulterior e Horrors (fatto che in vero ho già raccontato in una qualche recensione: abbiate pazienza, ormai sono come quelle cariatidi che ripetono sempre la stessa storia dei bei tempi andati).
Quel quadretto si è poi risolto con lo scioglimento degli S.C.U.M dopo un solo bellissimo album, con gli Ulterior incapaci di raggiungere un pubblico di qualsivoglia rilievo nonostante un debutto altrettanto valido, e con i soli Horrors capaci di imporsi con pieno merito fra i santoni del panorama indie britannico. I White Lies? Vanno avanti con la loro fetta di pubblico che via via si restringe ma ancora gli consente di centrare la top-5 nella prima settimana di uscita. La critica li demolisce con costanza, ma per fortuna sembrano fregarsene senza troppi piagnistei, rimanendo fedeli alla propria linea.
Quel movimento ipotizzato dal celebre giornale non era in realtà una resurrezione gotica, ma un cambio generale di mood, da parte di giovincelli stufi di chitarre secche e riffeggianti (che pure regalarono tanta bella musica, ma che dopo un lustro avevano provocato indigestione). Da lì il suono delle produzioni si è gonfiato a dismisura. Molte delle band britanniche dal 2008-2009 in poi sembra che abbiano registrato le proprie canzoni in cima al K2, per non parlare dell'aspetto vocale: messo al bando l'approccio un po' caciarone e isterico della precedente scuola.
Si può insomma odiare i White Lies quanto si vuole, ma la realtà è che si tratta di una band centrale per il rock britannico degli ultimi anni. E per la gioia di chi li ha da sempre difesi, questo terzo lavoro in studio li vede in ottima forma. Certo non è un album che possa cambiare la vita (quel potere lo lasciamo al debutto capolavoro), ma contiene comunque qualche pezzo pronto a diventare un classico dei loro. Cosa volere di più?
"There Goes Our Love Again" è un k.o. immediato, serratissima dalla prima battuta, con batteria maestosa, bassone e velo di tastiere corali. Harry McVeigh inizia a cantare esattamente al terzo secondo, senza neanche dare il tempo di incassare l'attacco strumentale mozzafiato. Quello che si nota maggiormente è l'atmosfera ariosa: rimane la potenza di "To Lose My Life", così come ne rimane il marchio strumentale, ma la sua atmosfera tragica è evaporata. Questo è un perfetto singolo estivo, e in tutta onestà, chi se lo sarebbbe aspettato da questi tre musoni?
"Mother Tongue" è un altro gancio: senza perdere tempo dispiega il suo ritmo imponente e al secondo 33 è già arrivata al ritornello, apoteosi di chitarrone e vociona. La loro è davvero big music, in ogni senso del termine (quindi anche nel senso Waterboys, Echo and the Bunnymen e Big Country).
In generale i brani più veloci e immediati sfoggiano tutti questa sensazione di libertà, corsa in spazi aperti e montagne immacolate ("Be Your Man" ne è un altro esempio lampante); chi scrive li preferisce ai lenti, che peccano di qualche eccesso zuccherino, pur rivelando comunque il talento del trio (si pensi alla power ballad con pompa orchestrale "First Time Caller"). Meritevole di medaglietta anche "Tricky To Love", midtempo tutto grandeur e malinconia, le cui stratificazioni tastieristiche spiegano meglio di ogni parola quanto sia curata la produzione di Ed Buller, maestro sottovalutato come pochi, che quest'anno abbiamo già visto attivo con i ritrovati Suede.
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