Yuck
Yuck
E alla fine il revival noise-pop/noise-rock è sbarcato anche Oltremanica: in Usa e Canada già si sapeva che esso era uno dei movimenti indie imperanti (basti pensare a band quali No Age, Pains Of Being Pure At Heart, Japandroids); l’Inghilterra invece non aveva mostrato finora una grande adesione verso questo sound, se si esclude l’esordio dello scorso anno dei Male Bonding. Con il debutto omonimo degli Yuck (band formata dalle ceneri dei Cajun Dance Party, con l’aggiunta di una chitarrista giapponese e un batterista americano), però, si ha una decisa propensione verso suoni prettamente americani (a tal punto che se uno non li conoscesse non penserebbe affatto che siano inglesi): in primo luogo c’è la ripresa di stilemi indie-rock di fine anni ’80- inizi anni ’90, e dunque echi a volontà di Dinosaur Jr., Pixies, Sonic Youth per arrivare a Pavement, Superchunk, Sunny Day Real Estate, con una vena noise pop che non di rado fa venire in mente gruppi come Velocity Girl o Madder Rose. Allineandosi a queste influenze, poi, si finisce inevitabilmente per porsi nello stesso filone delle band menzionate all’inizio.
Ora, non c’è nulla di male ad essere britannici innamorati degli Usa; il punto però è: dov’è la capacità di rielaborazione? Lungo queste dodici tracce, infatti, prendono vita brani che oggi come oggi non hanno più niente da dire, perché propongono caratteristiche già ampiamente sfruttate con maggior successo da tantissimi altri gruppi. Ci si muove tra garage-rock distorti secondo il verbo di J Mascis (la sferragliante opener Get Away, il banale bubblegum di The Wall), ballate malinconiche dal sapore elettrico (la crepuscolare Shook Down, la Shins-iana Suicide Policeman, il dittico vagamente grunge di Suck e Stutter) senza che si ascolti qualcosa che possa far gridare al miracolo. Sia chiaro, una discreta bravura in fase melodica e compositiva c’è, ma è sempre inserita in un contesto da classico compitino. Solo tre canzoni riescono a svettare sul resto (tra l’altro proprio quelle tre rilasciate come singoli, con conseguente hype a dismisura, che è valso loro l’inserimento nella BBC Sound Of 2011): lo shoegaze che flirta coi Sonic Youth di Holing Out, l’indie-pop squillante e appiccicoso di Georgia e la progressione emozionale, un po’stoner-rock un po’ Arcade Fire, di Rubber. Se si vuole avere un barlume di speranza per il prossimo disco si dovrà ripartire da questi tre (ottimi) brani. E magari migliorare anche la qualità dei testi, troppo spesso intrisi di banalità e melensaggine.
È inevitabile infine fare un confronto con l’esordio parallelo dei Chapel Club: da una parte la ripresa creativa di decenni di musica britannica, dall’altra un’anonima riproposizione di un sound che in USA si può già trovare in quantità industriale. Eppure sono proprio questi Yuck a godere del plauso della critica mondiale. Segni dei tempi? Purtroppo sì.
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