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R Recensione

7/10

ZiDima

Buona sopravvivenza

Zi’ Dima è il nome dell’orgoglioso e sfacciato artigiano che aggiusta la giara di don Lolò nell’omonima commedia di Luigi Pirandello, una novella che, nella sua inestricabile circolarità, racchiude tutto l’universo pirandelliano. Quattro (non più) giovani musicisti milanesi hanno eletto Zi’ Dima a nome proprio, regalando nuova vita a uno dei personaggi più divertenti e puntigliosi della letteratura italiana. Il disco che ci propongono è, d’altro canto, in piena sincronia coi tempi che corrono, tanto che il suo titolo è un invito, “Buona sopravvivenza”. Dunque non più «buona vita» – come dicevano gli ottimisti – perché oggi l’esistenza è una parvenza e non rimane che barcamenarsi nella fiera del futile, in questo sfoggio di ovvietà, in così poca e demente umanità. Restare a galla, ecco, questo sarebbe un buon risultato.

Gli ZiDima son formati da Manuel Cristiano Rastaldi alla voce, Roberto Magnaghi alle chitarre, Cosimo Porcino al basso e Francesco Borrelli alla batteria. Tanto vale dirlo subito: se vi piacciono i Massimo Volume vi piacerà anche “Buona sopravvivenza”. Detto questo, cerchiamo di capire quali sono le peculiarità sonore di questo disco bello e adirato. Innanzitutto gli ZiDima percuotono gli strumenti come panni su una tavola per il bucato: il loro sound è percussivo e molto, ma molto, rock. È come se Emidio Clementi scrivesse musica per i Linea 77, ma qui parliamo di una band con un’anima e una personalità molto spiccate, che a stento apprezzerebbe questi giochetti da critico. Dal punto di vista autorale è ancora valido lo slogan ferrettiano del “Produci consuma crepa”, con la differenza che oggi è finito pure quel sarcasmo che lo contraddistingueva per lasciare spazio a uno sconfinato e desolante squallore. Della politica, della civiltà occidentale, dell’uomo. Il brano che a mio avviso racchiude l’intero programma degli ZiDima è “Trema carne mia debole”, una formula che può ampiamente sostituire quella dei CCCP; pure cantano ne “L’autodistruzione”: «Un delirio, / un fastidio, / una vita più tragica». Ditemi voi se questo non è la perfetta convocazione a un harakiri da terzo millennio!

Gli ZiDima puntano il dito, sono rudi come questi anni infami, ruvidi pure nel cantare l’amore allorquando, in “Sette sassi”, urlano: «Avrei dovuto imparare la differenza / tra scoparti forte e scoparti bene». Nel rock degli ZiDima vi sono anche preghiere alla Verdena (“Saziati”), germi di Afterhours (“Come farvi lentamente a pezzi”) e spore di Marlene Kuntz (“Un oceano di fiati distrutti”). Praticamente mandano a puttane il mondo per rabbia, ma non senza riflessione, tant’è che in “Inerti, comodi e vermi” non fanno che attualizzare il motto gramsciano «Odio gli indifferenti». “Buona sopravvivenza” è diventato a questo punto un disco di inni e slogan, senza intenzione alcuna di porsi su un piedistallo. È il rock stesso che obbliga i nostri a diventare pastori d’un gregge di pecoroni, e nella title-track vale fino all’inverosimile l’«Odio i vivi» di Edda.

Sento già i puristi imprecare contro quest’opera: perché proporre un disco che, nelle strutture e nei temi, rincorre i più eloquenti Massimo Volume? Rispondo io. Innanzitutto tracciare una via non significa averne il diritto esclusivo al transito. E poi, dopo aver sentito: «Siamo già sopravvissuti a noi stessi, / ai finali consolatori, / ai morsi dati e presi / per non sentirci innocui», lo capite che gli ZiDima ce l’hanno proprio con chi ha fatto diventare iene anche i pecoroni?

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