Dirty Beaches
Badlands
Strano disco, imperfetto e scomposto, eppure con qualche spunto notevole, questo “Badlands”, quarto lavoro di Alex Zhang Hungtai. Malgrado il moniker sembri saltare fuori da un generatore di nomi per artisti glo-fi, i territori sono quelli di uno psycho-billy stravolto nella bassa fedeltà (lato A) e di ballate impomatate da crooner anni ’50 (lato B). Cose, in ogni caso, che si muovono nel passato remoto, per emergere malate e violentemente passionali.
Dalla decomposizione rockabilly stile Suicide (“Speedway King”) a un indie pop sixties impeciato di merda (“A Hundred Highways”), tutto qui dentro è ipnotico, eseguito durante quelle che sembrano jam solitarie e biliose. Badlands davvero, queste. Balere da prom di fine anno andate a fuoco, camerette ye-ye insozzate, locali rockenrolle sfasciati. E allora nella prima metà resuscita Lux Interior in una reinterpretazione zombie di se stesso (“Sweet 17”), su riff ripetitivi e fruscii sovrabbondanti (“Horses”), tutto impiastricciato dal sudore, elettrizzato.
Molto più distesa la seconda (diversissima) parte del disco. Un paio di gemme di retrò-pop dimostrano senza dubbi che il ragazzo ha talento: “True Blue”, lentone estivo color seppia, piacerebbe ai The Love Language, con il baritono di Hungtai che abbassa Elvis nelle catacombe. Dove, assurdamente, incontra Françoise Hardy: “Lord Knows Best”, costruita sulla frase di piano che attacca la “Voilà” della dea francese, è talmente stracolma di romanticismo da suonare come una ballata della disperazione. Bellissima, quindi. Soprattutto se viene seguita dalla colonna sonora di un corteo funebre rubata ai Portishead (“Black Nylon”: baratro) o a un becchino amante di field-recordings (“Hotel”).
Neppure 30 minuti di musica (non sarebbe meglio parlare di ep?), ma tratti di classe. Servirà certamente, per darle più corpo, decidere quale prendere tra le due direzioni in cui questo “Badlands” si scinde.
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