V Video

R Recensione

7/10

Dirty Beaches

Drifters / Love Is the Devil

Dirty Beaches lo vidi live due anni fa. Mi colpirono due scene (sembrava un film, sì). La prima: quella in cui scese dal palco e iniziò a girovagare con atteggiamento straniato tra il pubblico, mentre la base andava, a mo’ di colonna sonora. Risalì solo quando un ragazzo che aveva afferrato per il collo, dopo un momentaneo spaesamento, iniziò a manifestare segnali di reazione. La seconda: la scena in cui, alla richiesta di suonare la love songTrue Blue”, si fermò quasi agghiacciato e rispose, nel silenzio: «no, don't ask for that song». Nessuno osò replicare.

Ne dedussi che Alex Zhang Hungtai era un duro. Di quelli che sfoggiano la forza per nascondere un’abissale fragilità. E questo doppio album, con cui dà seguito al folgorante “Badlands”, lo conferma. Di mezzo c’è un true love andato male, malissimo: l’amore diventa diavolo e fa andare alla deriva. Nessuna “Lord Knows Best” è più possibile. Solo, al posto del romanticismo esacerbato, un’altrettanto estrema disperazione.

Filo comune tra i due dischi, allora, è il motivo del vagabondaggio. Tra Belgrado, Berlino, Lisbona, passeggiate notturne, disorientamenti allucinati, solitudini sul Danubio, ebbrezze da déraciné, si ha l’impressione di essere fagocitati in un gorgo insensato e senza bussola – dove il viaggio, invece che guarire, trascina nel caos. I suoni sono ossessivi, scuri, impeciati in loop maledetti e spirali angosciose che ritrovano se stesse sotto i rumorismi più disfatti. Alla perdizione geografica si aggiunge quella temporale, vista la consueta immersione rétro (via bassa fedeltà) che sembra affondare i pezzi in un passato/inconscio torbidissimo e sempre pronto a fiottare energie nere, rimossi, dejà-vu alieni. Archetipi che spaventano.

I due dischi ripropongono su scala maggiore la dicotomia di “Badlands”, che si articolava in una prima parte, più energica, sostenuta dalla voce e in una coda funerea per lo più strumentale. Così in “Drifters” si ritrovano sporche volute di elettrica o di basso caricate dal baritono di Hungtai, come un Elvis filtrato male (“I Dream In Neon”) o un Cash marcito (l’eccellente “Casino Lisboa”), su basi più corpose che strisciano ancor più di psichedelia l’insieme, pure quando suonano meccaniche e assurdamente kraftwerkiane (“Elli”), o persino tribali (“Au Revoir Mon Visage”). È la zona meno ostica del doppio album. Ed è tutto dire.

Dove suona ‘oltre’, Dirty Beaches, è nelle parti che il tumulto lo ricreano svaporando, per somme di indefiniti. Hungtai, così, finisce in zone noir che si toccano con certe digressioni ipnagogiche degli scorsi anni dal sapore quasi spacey (certo James Ferraro, Sand Circles, Dylan Ettinger, il primo Samantha Glass): ed ecco lunghe jam di squallore metropolitano (“Mirage Hall”), neo-psichedelia che rifà le notti vissute da cani e i profili grigi delle case resi per droni e lacerazioni (“Belgrade”), paesaggi ambient sfumati nella nebbia e pieni di cacofonie ubriache (“Landscapes in the Mist”, “Greyhound at Night”). È soprattutto “Love Is the Devil” a sviluppare questo discorso, concedendo qualche tregua all’ossessione solo dove la solitudine sboccia fiori del male (“This Is Not My City”) su tastiere che sono pure lacrime (“Berlin”, “Love Is the Devil”). Colonna sonora di Hungtai, con le sue parole, mentre era un «rotten piece of shit». E si sente.

C’è qualche passaggio a vuoto, dove la sperimentazione si dilunga troppo o dove gli inserti elettronici si integrano male con l’old-fashioned che ci sta sotto. Va a vuoto, Dirty Beaches, dove il suo emulo Daughn Gibson, lo scorso anno, aveva fatto centro. E di certo mancano, qua dentro, i 2-3 instant classics che “Badlands” aveva dato. Ma la scoperta della fragilità e il suo disvelamento hanno permesso a Hungtai di andare ancora più a fondo nella sua originalissima ricerca. Sporco ce n’è sempre. Sempre di più.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 2 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
salvatore 5,5/10
Cas 6,5/10

C Commenti

Ci sono 4 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

Franz Bungaro alle 11:50 del 3 giugno 2013 ha scritto:

Non sono riuscito a capire se ti sia(no) piaciuto/i più questo/i o Badlands. A guardare i voti, sembrerebbe questo, ma a leggere le tue parole sembrerebbe Badlands (usi qui per quell'album termini come "folgorante" "istant classics"). Io non saprei dire, concedo un'altra manciata di ascolti a questo per decidere, anche se per adesso la sensazione è che sia meglio l'ultimo arrivato.

target, autore, alle 11:57 del 3 giugno 2013 ha scritto:

Mi è piaciuto più questo, senza dubbi. Badlands è un'esplorazione. Folgorante, ma ancora incerta e con alcune intuizioni solo accennate. Qua tutto è approfondito, sviluppate le bozze. Ciò non toglie che, a livello, di singoli, Badlands ne avesse 2-3 di imbattibili.

Cas (ha votato 6,5 questo disco) alle 18:57 del 22 giugno 2013 ha scritto:

Se con Badlands Hungtai generava una grandiosa meteora, un geniale (casuale?) salto di qualità, con questo si ritorna agli esperimenti retrofuturisti elettro/lo-fi delle precedenti produzioni. Dando loro maggiore organicità, certo, ma retrocedendo per quanto riguarda l'originalità della proposta. Rimane il fascino di pezzi come I Dream in Neon e Casino Lisboa, ma il resto non riesce a risultarmi particolarmente ricco e fecondo. Se ne è parlato spesso (dove sei Krautrick?) della possibilità di mantenere i livelli raggiunti da Badlands, dicendo già allora che sarebbe stata cosa ardua. Seppur questo nuovo lavoro non sia disastroso si mantiene ad una distanza siderale dal capolavoro (un unicum?) del 2011...

target, autore, alle 11:28 del 22 luglio 2014 ha scritto:

Dirty Beaches ormai è diventato Richard Skelton (e mi piace sempre di più): http://vimeo.com/98232361