Dirty Beaches
Drifters / Love Is the Devil
Dirty Beaches lo vidi live due anni fa. Mi colpirono due scene (sembrava un film, sì). La prima: quella in cui scese dal palco e iniziò a girovagare con atteggiamento straniato tra il pubblico, mentre la base andava, a mo di colonna sonora. Risalì solo quando un ragazzo che aveva afferrato per il collo, dopo un momentaneo spaesamento, iniziò a manifestare segnali di reazione. La seconda: la scena in cui, alla richiesta di suonare la love song True Blue, si fermò quasi agghiacciato e rispose, nel silenzio: «no, don't ask for that song». Nessuno osò replicare.
Ne dedussi che Alex Zhang Hungtai era un duro. Di quelli che sfoggiano la forza per nascondere unabissale fragilità. E questo doppio album, con cui dà seguito al folgorante Badlands, lo conferma. Di mezzo cè un true love andato male, malissimo: lamore diventa diavolo e fa andare alla deriva. Nessuna Lord Knows Best è più possibile. Solo, al posto del romanticismo esacerbato, unaltrettanto estrema disperazione.
Filo comune tra i due dischi, allora, è il motivo del vagabondaggio. Tra Belgrado, Berlino, Lisbona, passeggiate notturne, disorientamenti allucinati, solitudini sul Danubio, ebbrezze da déraciné, si ha limpressione di essere fagocitati in un gorgo insensato e senza bussola dove il viaggio, invece che guarire, trascina nel caos. I suoni sono ossessivi, scuri, impeciati in loop maledetti e spirali angosciose che ritrovano se stesse sotto i rumorismi più disfatti. Alla perdizione geografica si aggiunge quella temporale, vista la consueta immersione rétro (via bassa fedeltà) che sembra affondare i pezzi in un passato/inconscio torbidissimo e sempre pronto a fiottare energie nere, rimossi, dejà-vu alieni. Archetipi che spaventano.
I due dischi ripropongono su scala maggiore la dicotomia di Badlands, che si articolava in una prima parte, più energica, sostenuta dalla voce e in una coda funerea per lo più strumentale. Così in Drifters si ritrovano sporche volute di elettrica o di basso caricate dal baritono di Hungtai, come un Elvis filtrato male (I Dream In Neon) o un Cash marcito (leccellente Casino Lisboa), su basi più corpose che strisciano ancor più di psichedelia linsieme, pure quando suonano meccaniche e assurdamente kraftwerkiane (Elli), o persino tribali (Au Revoir Mon Visage). È la zona meno ostica del doppio album. Ed è tutto dire.
Dove suona oltre, Dirty Beaches, è nelle parti che il tumulto lo ricreano svaporando, per somme di indefiniti. Hungtai, così, finisce in zone noir che si toccano con certe digressioni ipnagogiche degli scorsi anni dal sapore quasi spacey (certo James Ferraro, Sand Circles, Dylan Ettinger, il primo Samantha Glass): ed ecco lunghe jam di squallore metropolitano (Mirage Hall), neo-psichedelia che rifà le notti vissute da cani e i profili grigi delle case resi per droni e lacerazioni (Belgrade), paesaggi ambient sfumati nella nebbia e pieni di cacofonie ubriache (Landscapes in the Mist, Greyhound at Night). È soprattutto Love Is the Devil a sviluppare questo discorso, concedendo qualche tregua allossessione solo dove la solitudine sboccia fiori del male (This Is Not My City) su tastiere che sono pure lacrime (Berlin, Love Is the Devil). Colonna sonora di Hungtai, con le sue parole, mentre era un «rotten piece of shit». E si sente.
Cè qualche passaggio a vuoto, dove la sperimentazione si dilunga troppo o dove gli inserti elettronici si integrano male con lold-fashioned che ci sta sotto. Va a vuoto, Dirty Beaches, dove il suo emulo Daughn Gibson, lo scorso anno, aveva fatto centro. E di certo mancano, qua dentro, i 2-3 instant classics che Badlands aveva dato. Ma la scoperta della fragilità e il suo disvelamento hanno permesso a Hungtai di andare ancora più a fondo nella sua originalissima ricerca. Sporco ce nè sempre. Sempre di più.
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