Interpol
Antics
Stereotipi ed esoteriche elucubrazioni a parte, il secondo album resta sempre uno dei momenti-chiave nella carriera di una band.
Se poi è una band osannata dalla critica come la nuova via alla new-wave (passatemi il gioco di parole), il gruppo che più sembra poter seguire lo orme dei Joy Division, la storia diventa interessante. Il primo è stato un quasi capolavoro. Quasi perchè pur ricco di grandi canzoni restava profondamente legato alle radici di Ian Curtis e compagnia, approccio dark, voce e testi al limite della disperazione, atmosfere notturne.
La risposta newyorkese alla vecchia new-wave britannica, quasi un paradosso.
Meglio insistere sulla stessa strada spianata dal successo di "Turn on the bright lights" o cercare qualcosa di nuovo?
E' qui che sorge il dilemma per l'elegante quartetto (anche nella più banale e superficiale accezione del termine, basti pensare al loro abbigliamento) che ha saputo reinterpretare meglio di tutti, tra i contemporanei ovviamente, quel senso di metropolitana malinconia della Grande Mela.
Dopo due anni di attesa ecco quindi il nuovo lavoro di Paul Banks (chitarra e voce), Daniel Kessler (chitarre), Carlos Dengler (basso e tastiere), Sam Fogarino (batteria). La copertina sembra un presagio.
Laddove nel primo disco prevaleva il nero ora prevale uno sfondo completamente bianco. Presagi a parte, le novità si avvertono già dopo un primo ascolto.
Il tanto apprezzato approccio dark sembra essersi dissolto. La luce non filtra addolcendo, fioca e sommessa per quel tanto che basta il torpore delle tenebre. E' una luce quasi abbagliante. Una luce che apparentemente sa di purificazione e di ottimismo.
Restando nell'ambito dei confronti che tanto aiutano nelle recensioni, di Joy Division e Cure resta ben poco, prevale un piglio più solare quasi alla Talking Heads o alla R.E.M. con riff e giri di basso che sembrano addirittura venir fuori dai Pixies. Ed ancora: il volume delle tastiere è a tratti prevalente!
La voce resta comunque un elemento caratterizzante, metamorfosi a parte. Che poi non si tratta di metamorfosi vera e propria quanto più probabilmente di un'espressività estemporanea di un gruppo che resta sempre pervaso da quell'alone di fervida e malinconica cupezza.
Paul Banks sembra il portavoce di chi cerca di autoconvincersi della possibilità di uscire dal tunnel senza fondo dell'alienazione dell'uomo del ventunesimo secolo (tema ricorrente del percorso musicale dei gruppi newyorkesi).
E'una convinzione fittizia che si sfoga in canzoni agrodolci, dalla sospesa preghiera di "Next Exit" alla melodia efficace ed immediata di "Evil". Poi c'è "NARC" che rievoca immagini di club vintage di due decenni fa.
Per fortuna con "Take you on a cruise" e soprattutto con l'ipnosi claustrofobica di "Not even jail" si ritorna sottoterra. Sarebbe da ipocriti non ammettere come gli Interpol si esprimano meglio in questa dimensione.
"Slow hands" è la giusta via di mezzo tra quell'impasto sonoro fatto di riff graffianti e base ritmica tagliente da primo album e l'esaltata vena melodica di queste nuove "buffonate" (traduzione italiana di Antics, nessuna allusione, comunque un altro segnale da prendere positivamente).
Sulla stessa scia, pur con melodie meno ammiccanti "C'mere" e "Public pervert". Quella di "Lenght of love" è invece il volto più dance di questi inediti Interpol.
E tutto finisce per sfumare nella solenne "A time to be so small" dove torna a spadroneggiare un dolce senso di smarrimento.
Un finale insolito, ma forse il più adatto (o forse no) per un album controverso, molto più complesso di quanto possa sembrare, ottime sonorità e ottimi arrangiamenti.
Nel complesso lo si può considerare un gran bel disco , ma a patto che nel giudicarlo si facciano tutti gli sforzi possibili per difenderlo dagli scomodi paragoni con il suo fratello maggiore.
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