Interpol
Turn OnThe Bright Lights
Sarà forse per il mio retaggio musicale, solidamente ancorato agli anni del grunge, ma in questa decade non sono francamente riuscito ad entusiasmarmi alla fantomatica rock revolution che con insistenza da rasentare il fastidio ci viene propinata dai media musicali. Intendiamoci, non ho intenzione di sconfinare nella retorica da morte del rock e menate varie: sono in giro band straordinarie, dagli Oneida agli Xiu Xiu, nomi in grado di riverniciare con freschezza e ispirazione un carrozzone oggettivamente logoro. Mancano però a mio avviso quei gruppi che nel decennio passato erano stati in grado di sfondare le barriere del grande pubblico, di proporsi come comunicatori sociali pur mantenendo un livello qualitativo eccelso. A parte i White Stripes, provenienti da una solida gavetta e sorretti da un sincero amore per il blues e da una profonda conoscenza delle radici, band da grandi numeri quali Strokes, Franz Ferdinand e Libertines sono stati buoni giusto per le copertine di Vogue o per i servizi di Lucignolo.
Meritano un discorso a parte gli Interpol. Il loro formidabile album desordio Turn On The Bright Lights è certamente da ascrivere ai lavori con ampio bacino di utenza più significativi degli ultimi anni. Lhype generato è stato pienamente meritato, anche in virtù del successivo Antics, ottimo benché meno memorabile, e in attesa del fatidico terzo album, in scaletta per questanno. Qual è il segreto della formula che ha permesso al quartetto newyorchese di staccare tanti anonimi poseurs?
Stilisticamente, nelle undici canzoni di cui si compone, Turn On The Bright Lights è un brillante incrocio di influenze e citazioni. Un felice ibrido tra glaciali intuizioni new wave ( Television, Chamaleons e Joy Division sono influenze dichiarate:i primi due per i riverberi estatici delle chitarre, la band di Unknown Pleasures per il timbro baritonale del cantante Paul Banks e per le lancinanti e cavernose scansioni di basso) e lo spleen dandy-decadente di certo rock americano degli anni 90, a partire dagli Afghan Whigs. Ma come tutti i grandi, i nostri sanno muoversi con sontuosa sicurezza tra i detriti del rock e plasmare le influenze a loro piacimento, grazie a doti compositive smaglianti e alla capacità di creare un immaginario imponente in termini di versatilità e potenza evocativa.
Il marchio del classico è stampato addosso a diversi episodi dellalbum: le fluttuanti inquietudini di Untitled e il magico intreccio di ritmica turbinosa e vibranti fraseggi chitarristici di Obstacle 1 aprono le danze alla grande. Si prosegue con lanthem incalzante, vagamente smithsiano, di Say hello to the angels, col groviglio di riverberi di Hands away, con laffilata e disarmante malinconia che permea il crescendo di Stella was a diver and she was always down, e col passo spedito di Obstacle 2, magistrale nel mostrare come il gruppo sappia evitare le trappole della prolissità dark con lantidoto di sferzanti tirate. Paul Banks, con le sue liriche criptiche e ipnoticamente oscure, fornisce un valore aggiunto decisivo: valga quale esempio un verso come Im gonna hold your face and toast the snow that fell /because friends dont waste wine when theres word sto sell, per poi fornire la colonna sonora ideale alla fase in cui capisci che forse, dopo tanta autoindulgenza, anche tu a volte sai essere un bastardo e ti liberi dai sensi di colpa: ciò avviene nella perla lucente della catartica NYC, sensuale valzer metropolitano in cui Banks declama I Know youve supported me for a long time, but somehow Im not impressed. Degna conclusione di un lavoro splendido è la mantrica Leif Erikson, in cui fantasmi doorsiani sfumano in magnetiche tessiture, muovendosi come un vascello alla deriva oltre le acque antistanti la Grande Mela.
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