Julian Plenti
Julian Plenti Is Skyscraper
Con gli Interpol apparentemente in impasse nella stesura di un quarto album che dovrebbe dare una nuova direzione a un canovaccio ormai fin troppo consolidato, Paul Banks decide di gettare nel tavolo la carta solista, ricaricando le batterie e battendo possibilmente strade nuove. A onor del vero il suo alter ego Julian Plenti venne architettato ben prima che gli ammalianti marosi del classico “Turn on the bright lights” marchiassero a fondo la decade in procinto di terminare, con alcune apparizioni in concerti acustici datate 1998.Paul ha poi coltivato il progetto parallelamente alla sua ascesa quale star: ma solo adesso arriva l’investitura discografica ufficiale, e il momento appare quanto mai propizio.
Il frontman newyorchese appare in copertina con fare rilassato, lontanissimo dalle pose plastiche del passato, e con look assai meno stiloso, con tanto di occhialini da nerd. Ma nelle prime battute del disco affiora quell’inconfondibile voce baritonale, declamando versi quali “I´ve had my frustrations about the pains of daily life /I´ve tasted degradation and found the lace and candle light”, insinuandosi nei meandri più torbidi della Grande Mela col consueto piglio da dandy.
In musica ciò si traduce in un album di discreta fattura, forse privo di instant classics ma stilisticamente più variegato rispetto ai lavori degli Interpol, e libero dall’ipnotico giogo del basso di Carlos Dengler. I numerosi fan della band madre saranno probabilmente blanditi da classiche, oscure cavalcate quali “Games for days” e” No chance survival”, a volte sporcate con scorie elettroniche anni ottanta: si ascoltino “Only if you run” e “Fun that we have” ( i maligni potranno dire che Banks è passato dall’ossessione Ian Curtis alla scoperta dei New Order….). Ma non mancano spunti adatti a chi chiede qualcosa di più coraggioso, come le trame acustiche e sfrangiate di “Skyscraper” e il crescendo sinuoso di “On the esplanade”. Non sarebbero male anche i vapori pianistici di “H” , la malinconia circolare di “Madrid Song” o il blues narcolettico di “Girl on the sporting news” se non mancasse il guizzo melodico decisivo, mentre il rockettone da stadio in zona “terzo album dei Coldplay”, propinato in “Unwind”, lascerà di stucco più di un interpol-maniac. Un disco di transizione, nella migliore accezione del termine.
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