R Recensione

6/10

The Faint

The Faint

Spesso l'odio a cui vanno incontro coloro che tendono a presentarsi in anticipo agli appuntamenti è di gran lunga superiore a quello riservato ai ritardatari: niente di peggio di un intruso che si presenta in casa quando non siamo ancora pronti ad accoglierlo, magari sbracati in un paio di mutande scolorite o ancora intenti ad appilare i rifiuti solidi organici domestici sotto il malcapitato tappeto di turno.

Allo stesso modo c'è chi si presenta sul “mercato” discografico con un nefasto anticipo rispetto alle mode future. Ad esempio i Faint, rinati inaspettatamente nel 1999 come ibrido tra Gary Numan, Depeche Mode e Human League con Blank-Wave Arcade e presentatisi prematuramente all'appuntamento con gli anni '80 quando ancora i rigurgiti revivalistici di inizio millennio erano storia da scrivere. Ben prima insomma che gruppi come Franz Ferdinand, Hot Hot Heat o Futureheads divenissero beniamini delle riviste indie di tutto il mondo.

Il gruppo spazzava via in un sol colpo gran parte delle radici indie folk e emo che ne avevano contraddistinto l'esordio (tradimento!) e aveva l'ardire di uscire sulla conservatrice Saddle Creek (orrore!), “quella”, per capirsi, di Cursive e Bright Eyes.

Quando vede la luce Danse Macabre (2001) i tempi sono già maturi e il gruppo è in grado di esplodere, cavalcando i primi svolazzi new new wave e synth pop del decennio: quando esce il quarto, Wet from Birth il fenomeno è già al suo zenith.

A dieci anni di distanza da quel fatidico 1999 la situazione pare essersi ribaltata: le orecchie dei volubili ascoltatori indie sono ormai sature di cloni di Cure e Depeche Mode, e i rivoli più vitali del revival si stanno già dirigendo da tempo verso le sponde dello shoegaze e verso più raffinati rimaneggiamenti del synth pop.

I Faint, dal canto loro, non hanno passato gli ultimi 3 anni a girarsi i pollici: Fasciination esce sulla loro label personale, Blank.Wave e, pur non attuando rivoluzioni, sembra portare avanti il percorso di sperimentazioni sul proprio sound accennato nello sfaccettato Wet from Birth.

Il rapporto d'amore/odio con la tecnologia resta elemento centrale sia a livello tematico che sul piano musicale, e non vengono certo rinnegate le componenti elettroniche e eightes del suono: piuttosto, si ha l'impressione che il gruppo, dopo 10 anni trascorsi a sollazzarsi tra synth e vocoder, voglia dare nuove sfumature e aprire nuovi percorsi alla propria produzione musicale, spesso accentuando l'elemento cerebrale delle lyrics e domando maggiormente l'aspetto adrenalinico della faccenda.

I risultati, come sempre accade con le produzioni della formazione di Omaha, sono altalenanti: non possono mancare i passi di danza (macabra) post punk, come nell'anthemica Get Seduced o nell'incrocio tra Depeche Mode e Rapture di The Geeks Were Right.

Gli '80 proposti dai Faint restano comunque facenda più calligrafica e meno post moderna delle riletture fatte dai loro contemporanei newyorkesi e britannici: si ascoltino il synth pop a rotta di collo di Mirror Error o la marcetta meccanica di Forever Growing Centipedes. Gli fa da contraltare, a chiudere il quadretto delle composizioni più riuscite, l'indietronica giocattolo di Fish in a Womb.

Sull'altro piatto della bilancia gravano, ahinoi, i pezzi più tediosi, come la monocorde Fulcrum and Lever o la banalità sintetica di I Treat You Wrong, e non brillano certo per estro pezzi come Machine in the Ghost e la conclusiva A Battle Hymn for Children.

Più che di un'occasione mancata, si può parlare piuttosto di un percorso costellato di luci ed ombre, destinato necessariamente e ancora una volta a spaccare in due la platea, come in quell'ormai lontano 1999, quando i nostri decisero di salire sul palchetto di parrucconi dell'indie folk e dell'emo della Saddle Creek coraggiosamente armati di pose dark, sintetizzatori e vocoder ...

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