The Organ
Grab That Gun
Organo come elemento vitale o organo come strumento? Probabilmente entrambi, e certamente il secondo, che, suonato da Jenny Smith, fa da tappeto sonoro alle dieci canzoni (undici se si aggiunge una breve e superflua appendice strumentale) che formano il debutto di questo quintetto femminile canadese. Uscito già nel 2004, ma in sordina, l’album è stato ripubblicato nel 2006. Dieci canzoni compatte, omogenee, ad un primo ascolto difficilmente distinguibili l’una dall’altra: non c’è né eclettismo, né anarchia, né varietà in questo disco.
C’è l’idea fissa, tutt’altro che nuova in questi anni, di recuperare in toto la new waveanni ottanta: un’idea salda e sicura, ben piazzata, senza divagazioni. Da lì non ci si muove: Smiths, Cure, Joy Division. La voce dell’androgina Katie Sketch è fissa e monocorde, sa di gola, è profonda come i grigiori che evoca. Lo sfondo sonoro è sempre molto ripulito e netto: la chitarra si muove tra arpeggi di una semplicità disarmante e accordi che improvvisamente si intubano e giungono agli orecchi avviluppati, strizzati, scuri; il basso martella quasi sempre, elementare; la batteria sferza costante, uguale a se stessa; l’organo condisce infiltrandosi tra gli altri strumenti come un veleno. Non c’è nulla in più di questo.
Eppure il disco, nel suo genere, è tra i migliori di questi anni: subdolo e ipnotico, cancrenoso e anestetizzante, si insinua col suo color asfalto e infetta con lenta ma inevitabile efficacia. “Brother”, il pezzo d’apertura, ha una batteria che frusta, con la Sketch e l’organo che, da strade diverse, si incontrano nel ritornello e lasciano il segno. “Steven Smith”, breve e fulminante, si apre con l’organo che balbetta, e prosegue con l’ingresso progressivo degli altri strumenti, fino a quando il solito arpeggio inizia a salire e scendere facendo venire le vertigini alla Sketch, chiusa nella sua stanza pomeridiana con le luci spente. Sprofondamento claustrofobico.
I testi parlano di adolescenze bloccate in inverni aridi e cementificati, in città che occorre memorizzare perché si ripetono in eterni e neutri edifici (bellissima “Memorize The City”), tra amori ingenui e illusioni che si perdono e si rinchiudono nelle odiate strade del vicinato che non sanno più dire niente da un pezzo. “Sudden Death” e “I Am Not Surprised” spiccano tra gli altri pezzi per le melodie azzeccate, oltre che per i testi più delicati: una classica accoppiata di amore e morte che però lascia interdetti per la scarna e cruda intensità delle parole (quando Katie recita “Well, I know that you are near, but I feel alone even when you’re here”, ingessata nel suono cupo della canzone, viene non voluto un brivido, forse un crampo); “There Is Nothing I Can Do” e “No One Has Ever Looked So Dead” si distinguono per il ritmo più rallentato e l’arrangiamento più edulcorato.
Ma è solo il miele che serve ad addolcire la medicina: “Grab That Gun” (un subdolo invito a farla finita?) è un cucchiaio di sciroppo preso in una primavera nuvolosa, che fa stare l’ascoltatore in una convalescenza snervante ma sapientemente slavata dalla morfina. Ed ecco che l’innegabile monotonia del disco serve ad elevarne ulteriormente la carica lisergica, che assieme stordisce e guarisce: l’organo vitale, alla fine, non solo regge, ma forse ne esce persino più forte.
Il disco delle canadesi, tutto sommato, va al di là della moda musicale del momento e delle infinite possibili (qui più che altrove) derivazioni, e merita, mi pare, per capacità di penetrazione e di scavo lirico più che per originalità sonora o per bravura tecnica delle protagoniste, un posto di rilievo tra i dischi indie rock degli ultimi anni.
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