R Recensione

2/10

The Sounds

Dying to Say This to You

Aspettando che tornino prepotentemente di moda gli anni novanta (e già qualche segnale c’è, vedi Klaxons), tocca ancora sorbirsi, con esiti più o meno felici, la ripresa dei bistrattati ottanta. Una ripresa che finora si era concentrata soprattutto sui risultati più duraturi della new wave, dai Cure agli Smiths. A nessuno, che mi risulti, era ancora venuto in mente di andare a recuperare Nick Kamen, la Spagna che cantava in inglese, la Cuccarini delle sigle di Fantastico o le Bananarama. La lacuna sembrava tollerabile, se non persino provvidenziale. Così non è parso agli svedesi The Sounds, e questo disco è qui a dimostrarlo.

La musica-spazzatura, d’accordo, esiste da sempre. Solitamente è riconoscibile dal fatto che è la prima ad invecchiare, poiché, per sua intrinseca necessità, deve essere musica modaiola, al passo col presente, radiofonica, ostentatamente attuale, mordi-e-fuggi.

Non è incolpabile di far cagare i muri se non altro perché ha la pretesa di rispecchiare i tempi, la modernità, i dodicenni. Si tollera, alle volte fa anche divertire, più spesso fa riaffiorare nostalgie adolescenziali di cui non sempre è agevole separare la componente ingenuamente regressiva da quella reazionaria.

Va da sé che riprendere questo concetto di musica (la musica-spazzatura) ad anni di distanza è sempre questione di moda, e passa sotto il nome di vintage. Ossia: la moda che ritorna. E va da sé che questo comporta inevitabili sovrapposizioni con la “nuova” modernità, di cui non si avvertono ancora i caricaturali risvolti. E se si sovrappongono le mode si finisce diritti, volenti o nolenti, nella categoria del kitsch. Questo disco è una delle cose più kitsch che abbia mai ascoltato. E voglio credere che di kitsch tremendamente consapevole si tratti.

La ricetta è quella di riattualizzare l’intero edificio dell’electro rock eighties più basso, da Samantha Fox a Sandy Marton. Con la sola eccezione del pezzo d’apertura, che può casomai ricordare certe altre recenti furbate da classifica al femminile (Morningwood, ad esempio: voce aggressiva, schitarrate, cori, melodie facili), il resto è dominato dall’utilizzo sfacciato di sonorità ed effetti anni ottanta, con il synth che sembra riproporre certi samples predefiniti che credevo presenti soltanto in poche tastiere sopravvissute ai decenni. Basti ascoltare come iniziano “Painted By Numbers” o “Ego” o “Much Too Long Now”, e anche come proseguono, tra beat cotonati e melodie geometriche, facilissime, regolari, che escono quasi naturalmente in questo contesto strumentale, dando un’aria di canzoni ossigenate, plasticose, pacchiane, sorrette dalle spalline come le giacche maschili che indossava Spagna (ancora lei). Musica avvilente, o esaltante nel suo kitsch ostentato.

Kitsch, certo: il moderno di oggi non manca. Alcuni pezzi, come la conclusiva “Night After Night Bonus”, sembrano uscire da assurde alchimie, con giri di chitarra degli Strokes che vengono poi affidati ai Beehive. In “Don’t Want To Hurt You” sono rievocati i fantasmi degli Human League. Nella “Night After Night” vera e propria si ascoltano assoli di piano artatamente drammatici da poter emozionare, tutt’al più, il Tenerone di Drive-in. Il ritornello di “Tony The Beat” è una colata eighties svergognata, con tanto di campanellini heatherparisiani. Sembra di stare a metà tra un gioco del Commodore 64 e una puntata di Telemike, con Susanna Messaggio alla voce. E non mutano il quadro “24 Hours” o “Queen Of Apology”: anzi: lo arricchiscono di sgargiante decorativismo fatto di paillette e lustrini.

Poi, è ovvio: trovarsi in una discoteca sulla spiaggia quest’estate e ballare queste cose sbronzi può risultare devastantemente esaltante, per lo stesso motivo per cui nella vita ci sono momenti (istanti, giorni, serate, mesi; auspicabilmente non anni) in cui capita di sentirsi ridicoli, leggeri e vagamente di cattivo gusto. Allora questo disco è manna. Sennò è semplicemente spazzatura di secondo grado, nel nome di un accattivante divertimento.

Biunivoco, dunque: il disco migliore tra i peggiori del 2006.

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