The Strokes
Is This It
Is This It è l’album d’esordio degli Strokes, gruppo di New York capitanato da Julian Casablancas e comprendente tra l’altro due italo-americani: il chitarrista Nick Valensi e il batterista Fabrizio Moretti. A completare la formazione il bassista Nikolai Fraiture ed il chitarrista Albert Hammond Jr. Balza subito all’occhio la presenza di due chitarre (una subordinata all’altra? Macchè! Ma ne parleremo dopo).
Il disco, uscito nel 2001, ottiene un ottimo successo di pubblico e critica grazie alla visibilità mediatica ottenuta con una serie di concerti sfavillanti e con la fortuna avuta dai singoli Hard To Explain e Last Nite. Detto ciò, mettiamo subito le cose in chiaro: gli Strokes non hanno inventato (né penso che lo faranno mai) assolutamente nulla. La loro musica è un’immersione in un’epoca (i tardi ’60 e ’70) da cui è possibile ripescare Velvet Underground, Television e Stooges ma anche un certo gusto per il punk rock, per il power pop e soprattutto un’attitudine spirituale per rockabilly e rock’n’roll. Per certi versi, nonostante il suono che ne viene fuori abbia impresso in modo ben riconoscibile il “marchio Strokes” non si può fare a meno di pensare, per certi versi, ad un’opera manieristica. E già vedo molti storcere il naso.
Is This It ha comunque due enormi meriti che gli conferiscono un’importanza musicale enorme: innanzitutto ha dato il via al cosiddetto filone del new rock, ossia il ritorno d’interesse per filoni musicali (il pop-rock 60-70s e il periodo new wave) che parevano ormai morto e sepolti in un’epoca ormai segnata dall’uso dell’elettronica. È possibile dunque che senza gli Strokes non ci sarebbero stati Interpol, Vines, Black Rebel Motorcycle Club e via dicendo. Probabilmente non avrebbero trovato spazio neppure gruppi “esplosi” dopo tale uscita e che avevano già anticipato cronologicamente il gruppo newyorchese (si pensi ai White Stripes). Certo avremmo anche fatto volentieri a meno di Jet, Zutons e Coral ma si sa che una moneta ha sempre due facce.
L’altro grande pregio dell’album sta, molto semplicemente, nella sua elevatissima qualità: in 36 minuti troviamo condensati undici piccoli capolavori che non superano mai i quattro minuti di durata. Ascoltandoli si respira un’aria spigliata, fresca, ci si sente giovani e vitali come non mai. Le soluzioni chitarristiche sono spesso di una semplicità sconcertante senza però cadere nella banalità e comunque non significano una scarsa tecnica di Hammond e Valensi, i quali deliziano con numerosi e raffinati assoli, mai barocchi o eccessivi. Alla batteria Moretti è un metronomo e per quanto non picchi durissimo non sbaglia un colpo, mentre le linee originali del basso di Fraiture riescono miracolosamente a trovare visibilità nei fitti intrecci sonori creati dalle chitarre. Ma è Casablancas il vero trascinatore del gruppo con il suo canto istrionico, a volte svogliato e distante, altre rabbioso e urlatore, sempre e comunque con la voce impastata di alcool e fumo in attitudine decisamente punk. Difficile trovare picchi o cadute in un album caratterizzato da una grande compattezza e solidità. Impossibile operare una scelta dei pezzi migliori. Si passa dalla trascinante Barely Legal alla spigliata Someday, per poi arrivare al ritornello di Last Nite biascicato da un Casablancas meravigliosamente storto. E dove li lasciamo il power poplo-fi di Hard To Explain, il garage convulso alla Iggy Pop di New York City Cops (sostituita sul mercato Usa dalla più “corretta” When It Started in seguito all’11 settembre) e lo scoppiettante finale Take It Or Leave It? No è davvero troppo dura cercare di fare selezioni. Non vi rimane che ascoltare voi stessi per cercare falle che io non riesco a trovare. E scusate se non riesco a contenermi, ma al termine di questo disco non posso fare a meno di urlare “Viva il rock’n’roll!”.
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