The Willowz
Chautauqua
Mentre il filone “new new wave sembra” ormai entrato in un pericoloso e sclerotico cul de sac, pare che la frangia più tradizionale dell’ondata “new rock” di questo decennio sia destinata a tenere alta la soglia d’attenzione degli ascoltatori ancora a lungo: gruppi come White Stripes, Black Keys, Wolfmother, per intenderci, che declinano in chiave garage o hard rock un rock terrigno ed eclettico, che perpetua la sua tradizione attraverso pezzi e dischi che hanno tiro e presenza sufficienti da farti dimenticare che, in fondo, si stanno ripassando pagine già scritte.
Probabilmente d’ora in poi sarà il caso di includere nella lista, anche i Willowz: attivi dal 2002, pupilli di Michel Gondry che li ha voluti nella colonna sonora di Eternal Sunshine of the Spotless Mind (tristemente tradotto in Italia in Se Mi Lasci Ti Cancello), il gruppo guidato da Richie James March giunge con questo Chautaqua al traguardo del terzo disco.
Il difficile terzo disco ? Se così è, i tre paiono aver superato l’ormai retorico psicodramma con gran classe: approdo su Dim Mak, label di Be Your Own Pet e Soledad Brothers. Cover che rievoca fieramente i Love di Da Capo. Ma soprattutto, una staordinaria infornata di sventole rock dal piglio hard e dal taglio garage, dalla vena acida ma dal tiro melodico, cosparse qua e là di fresche fragranze country blues.
Anthemici senza essere scontati, derivativi senza essere scolastici, i Willowz dimostrano di aver imparato la lezione di “papà Jack”: pur essendo meno moderni e meno eclettici dei White Stripes, analoga è l’abilità nell’addomesticare le asperità dell’hard rock mitigandole con il dono della sintesi del garage rock, senza per questo rinunciare a divagazioni psichedeliche e strumentali, escursioni nell’indie e nel country.
I modelli del gruppo sono bene in vista: l’hard rock zeppeliniano e sabbathiano, chitarre hendrixiane negli episodi più acidi, i Rolling Stones country blues (Jubilee e Once and a While) e quelli boogie (Bog Knob), ma anche il glam’n’roll delle New York Dolls.
Da urlo l’iniziale Beware, che ti artiglia in un vortice hard rock da cui c’è via d’uscita, il terso blues in due tempi di Take a Look Around, la sferragliante escursione hillibilly di Jubilee, la foga di Siren Song e Warship. E c’è pure posto per le sorprese, come l’indie rock chitarristico di All I Need e Lonesome Gods e una Yesterdays Lost a metà strada tra ‘60s pop e Hank Williams.
Difficile, onestamente, fare meglio di così.
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