R Recensione

5/10

Tokyo Police Club

Elephant Shell

Il caso dei Tokyo Police Club è lapalissiano e la soluzione dell’enigma è data da un’equazione semplicissima: fuori tempo massimo. Fossero usciti cinque o dieci anni fa probabilmente sarebbero stati incensati enormemente non solo dal pubblico ma anche dalla critica, all’epoca ingolosita e intorbidita da quella serie di dischi new rock che rispolveravano più o meno efficacemente dal periodo wave sfornando chitarrine post-punk ripulite, scarnificate e magari mischiate in progressioni micidiali. Strokes, Bloc Party, Interpol, Arctic Monkeys sono solo i più famosi di quel carrozzone che possono essere tenuti in considerazione per analizzare Elephant shell. Volendo si potrebbero tirare fuori dal cilindro altri conigli come Editors, Libertines, Departure e Maximo Park ma la sostanza non cambia. Si parla insomma di quell’indie-rock a scremature wave che abbiamo ascoltato talmente tante volte da cominciare a provarne nausea e disgusto.

Ciònonostante i media (britannici in primis, Nme docet) sembra voler cavalcare ancora un po’ il carrozzone e continua a pompare esordi di improbabili next big thing quali Foals e, per l’appunto, Tokyo Police Club.

La cosa davvero buffa è che il gruppo è al cento per cento canadese. Allora ci si chiede per quale arcano motivo quando si ha la fortuna di vivere una delle stagioni musicali più floride di questo decennio con quella scena che comprende quei mostri che sono Wolf Parade, Arcade Fire e Frog Eyes (solo per dire i più famosi), per quale motivo dico, si deve andare a scegliersi come modelli stilistici gruppetti di più dubbio valore quali sono (chi più chi meno) la sfilza di band anglosassoni sopracitate? Sono queste le cose che dovrebbero far riflettere.

Poi per carità, uno lo ascolta Elephant shell e mica si strappa i capelli per la tortura lamentosa che ne viene fuori, anzi. Le undici canzoni che compongono il disco durano mediamente due minuti e nel complesso non si arriva nemmeno alla mezzora di musica. Degno degli Strokes di Room on fire insomma. E non mancano gli anthem meritevoli di menzione: il groove di In a cave (con una linea di basso fumante), la tracotanza giovanile di Your english is good o l’incedere più solenne e malinconico di Listen to the math.

In generale però non c’è francamente niente più che una summa dei vari trucchetti da palcoscenico con cui siamo stati ammaliati e intrattenuti in questi anni: soffici melodie, intrecci di chitarre taglienti, ritmi un po’ tirati, una batteria dispari qui, un basso un po’ dark lì e così via. L’unico mezzo pregio di questo disco è la sua compattezza ritmica con cui tengono il piede schiacciato sull’acceleratore (eccezione unica e tutto sommato passabile The harrowing adventures of…) dall’inizio alla fine. Ma siamo sicuri che tutto ciò basti a soddisfare i palati invecchiati e ormai logori che nel corso degli anni hanno messo in cascina qualche disco di troppo per entusiasmarsi con l’ennesimo gruppetto di affascinanti giovanotti lustrati a dovere? Il sottoscritto alza il bastone che ha usato per arrivare alla scrivania e dopo averlo scosso debolmente rantola un secco ma deciso "No!".

V Voti

Voto degli utenti: 5/10 in media su 5 voti.
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MinoS. 7/10

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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fabfabfab (ha votato 4 questo disco) alle 10:06 del 17 luglio 2008 ha scritto:

Bravo

Ci siamo rotti le palle di questa roba sempre uguale. Tra l'altro questo disco è piatto come Carla Bruni ....

ThirdEye (ha votato 3 questo disco) alle 19:49 del 20 luglio 2008 ha scritto:

Inutili.....cime lo erano d'altronde strokes e co. gia ad inizio decennio....Figuratevi questi ora...quasi 10 anni dopo!