Bellini
The Precious Prize Of Gravity
Breve, urgente e impietoso, il disco. Brevi, urgenti ed impietosi pure noi. Giovanna Cacciola e Agostino Tillotta, le due colonne portanti degli Uzeda, dal 2002 in forza anche nei Bellini – sorta di supergruppo che vede completarsi l’organico con Matthew Taylor dei Romulans e Alexis Fleisig dei Girls Vs. Boys – potrebbero anche essere contenti di come verrà trattato il loro, terzo “The Precious Prize Of Gravity”. Che, bene specificarlo sin d’ora, non la mena certo per le lunghe e scocca dieci, arroventate frecce al centro di un mutevole bersaglio noise. Anni ’90, avete presente? Ecco, si parla di quello, né più né meno.
Che la stoffa per trattare certo, pericoloso materiale ci sia lo si vede (e sente, altroché) anche sulla distanza di qualche ascolto svogliato. Musicisti che, il rumore, lo hanno domato, ci hanno cavalcato imbizzarriti per anni ed ora, sopraggiunto il canonico offuscamento di metà carriera, continuano a trattarlo nella maniera più estrosa e fantasiosa possibile. Ecco perché, in sostanza, il disco appare niente più che un compitino diligente, sistemato a dovere per l’occasione ma enormemente al di sotto delle possibilità reali. Non è, inoltre, affatto un buon segno che in più di qualche occasione prevalga un senso d’inerzia, di noia sottocutanea, di esercizio di stile. I power chord del blues-core di “Wake Up Under A Truck” (ripresi, più o meno, anche in “Save The Greyhounds”) suonano così stantii e strascicati, “Susie” si spezza in due nel tentativo di coniugare acustico ed elettrico ed in “Daughter Leaving” le galoppate di chitarra, basso e batteria non riescono ad incidere. Restano, in definitiva, poche cose con cui baloccarsi. Quando la Cacciola spegne il microfono e lascia libero spazio alla sei corde del suo compare, per uno strumentale esplosivo (“The Man Who Lost His Wings”), il contraccolpo si sente e, paradossalmente, alza notevolmente il tiro: le distorsioni di “A Deep Wound” sbraitano con potenza un monito che più albiniano di così non si potrebbe. “Numbers”, se così si può dire, è il punto fermo da cui ripartire: una raffica di sassate guidate per mano da una Patti Smith in menopausa, che pigola la sua furia in una mitragliata di cambi di tempo e riffaggio.
Non c’è spazio per dubbi, qui dentro ci sono cuore, mente ed anima, come nelle migliori tradizioni. Tuttavia, come cantava Nina Persson assieme a James Bradfield dei Manic Street Preachers appena due anni fa, “Your Love Alone Is Not Enough”. Possiamo dire che del premio della solennità, questo giro, ne facciamo anche a meno.
Tweet