R Recensione

8/10

Oneida

Secret Wars

In giro si vocifera che il rock sia finito e che ormai non ci sia più niente da dire. Si dice che da vent’anni tutto quello che può venire è superfluo e già sentito. In giro se ne dicono tante di cose. Ma ogni volte che sento questi discorsi non riesco a trattenere un certo sorriso di compatimento nei confronti di chi le dice. Già perché ogni volta che qualcuno mi narra dei mostri sacri che non ci sono più e nessuno ha preso il loro posto io penso agli Oneida. Qualcosa di più di un gruppo. Qualcosa che si avvicina pericolosamente a un culto da idolatrare.

Si tende ad abusare molto della parola capolavoro, si tende anche a dire che il fantomatico “dieci” non si possa dare né a un album né a una canzone. Ok, allora intendiamoci subito: questo non è un album da dieci, ma è un disco della madonna e, aggiungo un capolavoro del rock, non solo degli anni ’00. Ecco già vi vedo lì a strepitare che sto esagerando, che non ho il senso della misura eccetera eccetera. D’altronde chi avrà avuto modo di ascoltare il precedente album Each one teach one si sarà già fatto l’idea della grandezza e delle enormi potenzialità degli Oneida. Chi non l’ha fatto per piacere eviti di parlare della musica rock contemporanea con inutili stereotipi e vada a procurarselo. Dicevo che li avevamo lasciati nel 2002 con Each one teach one, che li aveva rivelati alla critica specializzata soprattutto per l’audacia dei pezzi "Sheets of Easter" e "Antibiotics". Qualcuno aveva detto geni. Qualcun altro malati mentali. Nella stragrande maggioranza avevano comunque concordato che erano una delle cose più interessanti in circolazione. Bene, oggi finalmente ci troviamo tra le mani il seguito di quel gioiello e la conclusione del sottoscritto è questa: sono dei geni malati mentali.

Ma cerchiamo di parlare di musica: si parte col basso sfrenato e la batteria fremente di "Treasure plane" e si capisce subito quale sia l’andazzo: un trionfo della psichedelia passata attraverso il tunnel di stoner, hard rock, garage e post-punk. Insomma cose così non si sentono molto spesso in giro. "Caesar’s column" ha una batteria quasi punk semplicemente immensa. Il canto sussurrato in aperto contrasto col ritmo metallico creano una marcia sonora accompagnata ottimamente da uno strepitare di tastiere allucinogene.

"Capt. Bo Dignifies the Allegations with a Response" è un ritorno limpido alle sonorità di Each one teach one. Il martellare continuo ormai ti entra in testa e non ne esce più. Si può dire che è la dimostrazione clamorosa che il rock psichedelico ha ancora ampi margini di sperimentazione.

Se finora il livello medio è stato da infarto con Wild Horses si alza ancora di più: l’immenso assolo iniziale è un incrocio perfetto tra la chitarra acida dei Kyuss e i giri perfetti dei Built to Spill. Il canto lento e desolato evoca paesaggi tanto lontani e oscuri da poter essere paragonata per il pathos che esprime all’altrettanto splendida "Cortez the killer" di Neil Young. Ma forse qua c’è di più perchè davvero tutto sembra perfetto: il ritornello della madonna, il riff allucinante che trasuda passione e potenza e che ti porta a fare un viaggio sconosciuto verso l’ignoto. No non mi sto facendo un cannone però vi assicuro che chiudere gli occhi e limitarsi ad ascoltare rende quasi gli stessi effetti.

"$50 Tea" è un’altra orgia di suoni in cui sembra quasi che Kid Millions e soci giochino a chi fa più casino o a chi suona più veloce. Gli effetti non sono un pezzo alla Capitain Beefheart bensì l’ennesima fusione perfetta tra follia e musica. Parte l’ennesimo riffone metallico dilatato nel tempo e anche oltre. Mi viene da pensare ai Velvet Underground come suonerebbero oggi all’interno di una Desert Sessions con Josh Homme.

"The Last Act, Every Time" spiazza tutti con un sound più esotico, orientale, decisamente più levigato. Una dolce e tenera litania acustica che prepara alla devastante "The Winter Shaker" con l’ennesima enorme prova del batterista Kid Millions che agita la scena con un’accoppiata tamburo-piatti frastornante ripetuta per un tempo che potrebbe anche essere l’eternità e non ci dispiacerebbe. Poi però entrano in azione le chitarre e un anomalo canto da menestrello che sembra uscito da un disco solista di Syd Barrett ci fa toccare livelli vicini alla demenza. E comunque ci sta alla grande.

Potrebbe bastare qua. Si sarebbero potuti fermare e saremmo rimasti tutti soddisfatti. E invece il tocco finale. La ciliegina sulla torta. Quello che non ti aspetti: "Changes in the city". Il capolavoro assoluto di un album pazzesco. Una immensa cavalcata di quindici minuti che rappresenta la "Sister Ray" del 2000. In una progressione degna di una Stairway to heaven esplode in tutta la sua libertà il fuoco di un muro sonoro che trascina in un’estasi sognante. Niente voce. Solo sangue e sudore. Alzate il volume al massimo e rabbrividite. Ascoltate l’anarchia di una batteria quasi assassina. Ascoltate il basso oscuro e costante farvi gelare le ossa. Ascoltate quel giro di chitarra che incrocia Jimi Hendrix e Sterling Morrison, deflagra in un apice di intensità degno del miglior Jimmy Page e lentamente si spegne riportandovi ansiosamente alla realtà. Basta, pietà. Non ce la faccio più. Ho bisogno di tempo per riprendermi ora.

Cala il silenzio.

Ma tanto è inevitabile.

So già che tra cinque minuti me lo riascolterò!

V Voti

Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 5 voti.
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Cas 7/10
rael 8/10

C Commenti

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Cas (ha votato 7 questo disco) alle 20:59 del 8 dicembre 2007 ha scritto:

bello...

ma per coerenza, visto che a each one teach one darei otto, a questo non posso che mollare un sette e mezzo. anche perchè questo si, è molto piacevole, ma il precedente ha indubbiamente un valore innovativo maggiore