Shellac
At Action Park
Gli Shellac sono Steve Albini, Bob Weston e Todd Stanford Trainer, ma Shellac è anche il terzo progetto del produttore di ChicagoAlbini (Nirvana “In utero”, Pixies “Surfer rosa”, PJ Harvey “Rid of me”), dopo il nichilista hardcore in chiave industriale dei Big black, e il controverso postpunk (stavolta pienamente elettrico) dei Rapeman. Shellac prima ancora di essere musica è concetto, è resistenza al music business, realizzata attraverso le armi dell’ autoproduzione e dell’ autogestione (qualcosa di simile hanno fatto i Fugazi). Il progetto di Albini riveste una grande importanza nella storia della musica moderna, perchè introduce un nuovo modo di intendere la canzone rock. Lontana dagli stereotipi strutturali essa assume forme imprevedibili, muovendosi all’ interno di dinamiche frenetiche e atipiche (uso costante di tempi dispari, stacchi e attacchi sincronizzati alla perfezione). Fortemente legata all’ epressività del noise e all’ imediatezza del punk, la composizione preferisce un’ estetica sgraziata e fastidiosa, a discapito spesso della canonica armonia. Albini riesce a razionalizzare il caos in strutture geometricamente perfette e trame chitarristiche avvilenti, il tutto avvolto da una cupa ossessione per il ritmo sghembo; incosapevolmente mette le basi per quello che oggi conosciamo con il termine di Math(ematic)-rock.
At Action Park è oggi considerato come la più importante delle opere concepite da Albini in quanto iniziatrice di una rivoluzione musicale sopita. Fin dall’ inizio l’austera copertina mette le mani avanti sul contenuto del disco. Un colore non certo gradevolissimo e una scritta alquanto semplicistica ci fa intuire che quanto andremo ad ascoltare è tutt’ altro che accogliente.
Ed è infatti My black ass ad aprire un disco, che scorre via veloce come un rasoio. Un riff destinato a diventare storia spiana la strada ad un crescendo di liriche provocatorie. Un pugno in faccia. Segue il manifesto programmatico del genere, Pull the cup, in cui la chitarra spezzata e la sezione ritmica sembrano quasi inseguirsi sighiozzando in uno zig-zag incandescente. The admiral non è certamente un semplice riempitivo, ma scandisce perfettamente e in modo accattivamente la ripresa delle redini sonore.
Continua l’ incedere ordinato della martellante Crow, che non lascia quasi spazio allo sferragliare della Travis Bean del nostro ‘Eroe’, che si sfoga dunque negli ultimi venti secondi di canzone in una trama di note e urla. Bob Weston continua a macinare riff carichi di groove nella successiva Song of the minerals, accompagnati dai voli pindarici delle chitarre impazzite. L’ hardcore di A minute velocizza i termini del disco, in contrapposizione alla stralunata The idea of north che la segue immediatamente dopo. Dog and pony show cambia tempi in un vortice assolutamente imprevedibile. Boche’ s dick ammalia con il suo sapore d’ oriente e la sua grinta degna erede di My black ass.
Il porno star chiude tra improvvisazioni agonizzanti il disco che probabilmente influenzerà maggiormente tutta la musica degli anni a venire e quello che oggi è fortemente affermato con il termine di post rock.
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