Silver Rocket
Old Fashioned
Oplà!, ecco che ritorna lItalia rumorosa di metà anni 90, quella in grado di, oplà!, assimilare il piano Marshall esistenziale del decennio X americano e, oplà!, tradurlo con il consueto ritardo in montagne di chitarre strazianti, ritmiche serrate, eruzioni di cacofonia. Da Catania a Cuneo, oplà!, due città che per molto tempo hanno condiviso oltre alliniziale di toponimo grandi ideali musicali, fino a, oplà!, Ferrara, quindici anni dopo. Perdonate linfaticabile saltellare, ma gli italianissimi Silver Rocket, a forza di scavare nellinconscio dellascoltatore revivalista e di scivolare con celerità da uninfluenza allaltra, non lasciano un attimo di tregua. Chi, daltronde, sceglie di intitolare il proprio esordio Old Fashioned, si assume una buona dose di rischio nel venir messo, in tal senso, subito alla prova: how much old? Dagli amplificatori esce la sostanza degli anni 70, la forma degli anni 80 ed il mood dei Nineties, in una girandola che vuole piacere a tutti, senza scontentare nessuno. Noise rock tritato nel garage, echi di post punk, ballate acide, giri di accordi rosolati nei feedback, distorta irruenza e delicata sospensione: welcome to the jungle.
Dalla parte del gruppo pende un merito oggettivo: è impressionante, per essere un canonico power trio, londa sonora generata da alcuni brani, nello specifico lo pseudo-stoner semovente di Failure And Disaster e lepopea stoogesiana con improvvise rifrazioni surf di Untitled. In altri casi (The Worst Is Yet To Come) sarebbe più consono parlare di onda sonica, tanto vengono alla mente le prime epilessie di Thurston Moore e (ex?) soci: non che sia una sorpresa, il nome della band è già dichiarazione eloquente. Apprezzare Old Fashioned significa anche, e soprattutto, entrare nellordine delle idee di trovarsi di fronte ad un onesto e gustoso copia/incolla. Così Walk Out That Door è una compressa velvettiana al bromuro, arpeggi combusti e carichi di una luce accecante: The Getaway sfodera charleston tintinnanti e bassi delloltretomba; Indifferent è la riedizione scaglionata dei Joy Division via I Love You But Ive Chosen Darkness, il momento in cui il 77 viene avvolto dalle nebbie della new wave e va in testacoda contro le saturazioni dei Marshall. Static riavvolge le bobine, alla maniera di una Venus In Furs, e trascina il formato madrigale noise-punk su durate più consistenti, oltre i cinque minuti.
Accorato lappello che, nella conclusiva The Target (ennesimo spaccato reediano con finale in crescendo), il cantante e bassista Bruno C. sembra autoimporsi: vietato mancare il bersaglio. Obiettivo che, fatta eccezione per la superflua cover di Thats Life di Frank Sinatra, sembra essere pienamente riuscito.
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