R Recensione

6/10

Silver Rocket

Old Fashioned

Oplà!, ecco che ritorna l’Italia rumorosa di metà anni ’90, quella in grado di, oplà!, assimilare il piano Marshall esistenziale del decennio X americano e, oplà!, tradurlo con il consueto ritardo in montagne di chitarre strazianti, ritmiche serrate, eruzioni di cacofonia. Da Catania a Cuneo, oplà!, due città che per molto tempo hanno condiviso – oltre all’iniziale di toponimo – grandi ideali musicali, fino a, oplà!, Ferrara, quindici anni dopo. Perdonate l’infaticabile saltellare, ma gli italianissimi Silver Rocket, a forza di scavare nell’inconscio dell’ascoltatore revivalista e di scivolare con celerità da un’influenza all’altra, non lasciano un attimo di tregua. Chi, d’altronde, sceglie di intitolare il proprio esordio “Old Fashioned”, si assume una buona dose di rischio nel venir messo, in tal senso, subito alla prova: how much old? Dagli amplificatori esce la sostanza degli anni ’70, la forma degli anni ’80 ed il mood dei Nineties, in una girandola che vuole piacere a tutti, senza scontentare nessuno. Noise rock tritato nel garage, echi di post punk, ballate acide, giri di accordi rosolati nei feedback, distorta irruenza e delicata sospensione: welcome to the jungle.

Dalla parte del gruppo pende un merito oggettivo: è impressionante, per essere un canonico power trio, l’onda sonora generata da alcuni brani, nello specifico lo pseudo-stoner semovente di “Failure And Disaster” e l’epopea stoogesiana – con improvvise rifrazioni surf – di “Untitled”. In altri casi (“The Worst Is Yet To Come”) sarebbe più consono parlare di onda sonica, tanto vengono alla mente le prime epilessie di Thurston Moore e (ex?) soci: non che sia una sorpresa, il nome della band è già dichiarazione eloquente. Apprezzare “Old Fashioned” significa anche, e soprattutto, entrare nell’ordine delle idee di trovarsi di fronte ad un onesto e gustoso copia/incolla. Così “Walk Out That Door” è una compressa velvettiana al bromuro, arpeggi combusti e carichi di una luce accecante: “The Getaway” sfodera charleston tintinnanti e bassi dell’oltretomba; “Indifferent” è la riedizione scaglionata dei Joy Division via I Love You But I’ve Chosen Darkness, il momento in cui il ’77 viene avvolto dalle nebbie della new wave e va in testacoda contro le saturazioni dei Marshall. “Static” riavvolge le bobine, alla maniera di una “Venus In Furs”, e trascina il formato madrigale noise-punk su durate più consistenti, oltre i cinque minuti.

Accorato l’appello che, nella conclusiva “The Target” (ennesimo spaccato reediano con finale in crescendo), il cantante e bassista Bruno C. sembra autoimporsi: vietato mancare il bersaglio. Obiettivo che, fatta eccezione per la superflua cover di “That’s Life” di Frank Sinatra, sembra essere pienamente riuscito.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.