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R Recensione

6,5/10

Staer

Staer

Non ho mai pensato di diventare un ballerino professionista. Cuius regio, eius religio. Se non siamo diventati tutti fotografi con l’avvento del digitale e, parimenti, non siamo diventati tutti giornalisti postando compulsivamente sui social network, qualcosa mi fa sospettare che Gangnam Style non tirerà obbligatoriamente fuori il breakdancer che (non) è in noi. Gli stilemi del Nuovo Millennio si mangiano quello che è stato pensato e sintetizzato in precedenza, ma nel fagocitarlo qualcosa inevitabilmente rimane: pesante, scomodo, indigesto. I forti scampano, in isole private, alla bulimia dello tsunami tecnocratico. Nella rientranza di questo fiordo, dimenticato da Dio, vivono anche gli Staer. Così misconosciuti che qualcuno, nell’era di Internet, fa ancora confusione e si ostina a chiamarli Stear. Ce ne vuole. Dieci punti preliminari a loro, per la tenacia e l’incrollabile capacità di mimetismo. Nella Norvegia del nuovo metal contaminato e del free jazz in dispersione combusta, d’altronde, si rischia di non apparire abbastanza sotto i riflettori: ma chi la vuole, la luce, in un Paese proiettato per un terzo – a volare bassi – oltre il circolo polare artico? Nessuno.

Se mi doveste chiedere, un giorno, perché adoro il post-core, basteranno due parole a farmi da risposta: Jesus Lizard. Il chitarrismo di questo esordio, omonimo, comincia proprio con l’abbeverarsi dallo stile unico, inconfondibile di Duane Denison, la straripante creatività accademica prestata alla sporcizia e alle scorie radioattive del noise. Rem tene, verba sequentur, si potrebbe altresì chiosare, ma con il moltiplicarsi della progenie anche le fila del discorso si perdono nell’indistinto. Staer è, infatti, un mostro a più teste, caricato di accenti metallici, ustionato da urticanti friggioni rumoristiche (sono più i feedback che escono da questa sei corde che la durata complessiva del disco!), romanticamente antimelodico. Non si pensi, tuttavia, a presa lo-fi o imperizia tecnica, perché la pulizia della resa è totale, il controllo degli strumenti assoluto in ogni direzione e l’anima interna del gruppo secerne quello stesso veleno – artistico, sghembo, cerebrale – della migliore intelligencija avantgarde nordica (vi sono compressi i Box, i muscoli di The Thing, soprattutto i tracciati paralleli e sprezzanti dei primi e secondi Bushman’s Revenge).

Ci si carica come una molla, a tenere l’LP sul piatto, godere dei frutti del presente e meditare su ogni, singolo margine di miglioramento che questo trio promette, in futuro, di avere. Sono molte le osservazioni da appuntare, non per ultima una tendenza alla dispersività che neutralizza la ferocia delle distonie meshugghiane (assurde signatures post-crimsoniane, gelido formalismo persino oltre “The Power To Believe”, come le avrebbero storte i Laddio Bolocko) di “French Erotique” e rende innocuo il miasmatico fracking avant-noise di “Fluorescent Spots”, prima che arrivi il florilegio di effetti math della part two (il deformato call and response sick-funk di “Holiday Car”) a demolire ogni buon senso. Altrove, un senso dell’autoironia non comune sopperisce a marcate ingenuità stilistiche, come quando il macinino a vapore di “Sex Varnish” sprofonda in gargantuesche apnee dark ambient, irreale psichedelia solcata da frequenze oltretombali e bassi allucinati. Poi ci si diverte comunque parecchio: gli Adebisi Shank che fanno il verso agli Unsane, tra fangosi rallentamenti e voragini sonore, in “Det År Nyår, Jävlar” – c’è tutta l’iconoclastia scandinava, in questi tre minuti e mezzo –, sono solo il preludio ad una strepitosa “I Roll With Creflo” (impenetrabile e monocroma corazza chitarristica, pistone hardcore piantato in fronte alla potentissima sezione ritmica, distensione finale su mirabili distonie arpeggiate e scaraventate in una centrifuga sparata verso il baratro) e agli Oneida, destrutturati nelle colorate cacofonie degli Psychic Paramount, della lunga “Dr. Life”.

Noi la parola l’abbiamo messa. Anche un fiordo, a dicembre, può bruciare…

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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paolo gazzola (ha votato 7 questo disco) alle 10:27 del 10 dicembre 2012 ha scritto:

Bravo Marco, volevo scriverle io due cazzate su questo disco e invece hai fatto tu il solito gran lavoro. Nulla da aggiungere, disco ostico e affascinante, con momenti da urlo (French Erotique, I Roll with...) ma anche tanto da affinare. Il tempo c'è, ne risentiremo parlare (spero!).