Staer
Staer
Non ho mai pensato di diventare un ballerino professionista. Cuius regio, eius religio. Se non siamo diventati tutti fotografi con lavvento del digitale e, parimenti, non siamo diventati tutti giornalisti postando compulsivamente sui social network, qualcosa mi fa sospettare che Gangnam Style non tirerà obbligatoriamente fuori il breakdancer che (non) è in noi. Gli stilemi del Nuovo Millennio si mangiano quello che è stato pensato e sintetizzato in precedenza, ma nel fagocitarlo qualcosa inevitabilmente rimane: pesante, scomodo, indigesto. I forti scampano, in isole private, alla bulimia dello tsunami tecnocratico. Nella rientranza di questo fiordo, dimenticato da Dio, vivono anche gli Staer. Così misconosciuti che qualcuno, nellera di Internet, fa ancora confusione e si ostina a chiamarli Stear. Ce ne vuole. Dieci punti preliminari a loro, per la tenacia e lincrollabile capacità di mimetismo. Nella Norvegia del nuovo metal contaminato e del free jazz in dispersione combusta, daltronde, si rischia di non apparire abbastanza sotto i riflettori: ma chi la vuole, la luce, in un Paese proiettato per un terzo a volare bassi oltre il circolo polare artico? Nessuno.
Se mi doveste chiedere, un giorno, perché adoro il post-core, basteranno due parole a farmi da risposta: Jesus Lizard. Il chitarrismo di questo esordio, omonimo, comincia proprio con labbeverarsi dallo stile unico, inconfondibile di Duane Denison, la straripante creatività accademica prestata alla sporcizia e alle scorie radioattive del noise. Rem tene, verba sequentur, si potrebbe altresì chiosare, ma con il moltiplicarsi della progenie anche le fila del discorso si perdono nellindistinto. Staer è, infatti, un mostro a più teste, caricato di accenti metallici, ustionato da urticanti friggioni rumoristiche (sono più i feedback che escono da questa sei corde che la durata complessiva del disco!), romanticamente antimelodico. Non si pensi, tuttavia, a presa lo-fi o imperizia tecnica, perché la pulizia della resa è totale, il controllo degli strumenti assoluto in ogni direzione e lanima interna del gruppo secerne quello stesso veleno artistico, sghembo, cerebrale della migliore intelligencija avantgarde nordica (vi sono compressi i Box, i muscoli di The Thing, soprattutto i tracciati paralleli e sprezzanti dei primi e secondi Bushmans Revenge).
Ci si carica come una molla, a tenere lLP sul piatto, godere dei frutti del presente e meditare su ogni, singolo margine di miglioramento che questo trio promette, in futuro, di avere. Sono molte le osservazioni da appuntare, non per ultima una tendenza alla dispersività che neutralizza la ferocia delle distonie meshugghiane (assurde signatures post-crimsoniane, gelido formalismo persino oltre The Power To Believe, come le avrebbero storte i Laddio Bolocko) di French Erotique e rende innocuo il miasmatico fracking avant-noise di Fluorescent Spots, prima che arrivi il florilegio di effetti math della part two (il deformato call and response sick-funk di Holiday Car) a demolire ogni buon senso. Altrove, un senso dellautoironia non comune sopperisce a marcate ingenuità stilistiche, come quando il macinino a vapore di Sex Varnish sprofonda in gargantuesche apnee dark ambient, irreale psichedelia solcata da frequenze oltretombali e bassi allucinati. Poi ci si diverte comunque parecchio: gli Adebisi Shank che fanno il verso agli Unsane, tra fangosi rallentamenti e voragini sonore, in Det År Nyår, Jävlar cè tutta liconoclastia scandinava, in questi tre minuti e mezzo , sono solo il preludio ad una strepitosa I Roll With Creflo (impenetrabile e monocroma corazza chitarristica, pistone hardcore piantato in fronte alla potentissima sezione ritmica, distensione finale su mirabili distonie arpeggiate e scaraventate in una centrifuga sparata verso il baratro) e agli Oneida, destrutturati nelle colorate cacofonie degli Psychic Paramount, della lunga Dr. Life.
Noi la parola labbiamo messa. Anche un fiordo, a dicembre, può bruciare
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