R Recensione

9/10

David Maranha

Marches of the New World

Un disco di una bellezza atroce e lancinante questo Marches Of The New World.

Cinque pezzi che (ri)propongono David Maranha, multistrumentista portoghese, come uno dei più validi neo-minimalisti rock del continente. Molto più focalizzato intorno ad una propria visione del rock minimalista rispetto al precedente Noe’s Lullaby ma inferiore prospetticamente alle esperienze come Osso Exotico, Marches Of The New World è una vera e propria discesa negli inferi del rock nero-pece.

Ma per fare un po’ d’ordine, dobbiamo partire giocoforza dalla fine. Da quella Infinite March che con i suoi quasi 22 minuti occupa la bellezza di metà album. Una lunga, incessante marcia di rock ridotto ai minimi termini come se i migliori e più acidi Velvet Underground avessero deciso di dilatare Venus In Furs screziandola di umori sperimentali e da minimalismo d’avanguardia. Oppure, per converso, come un Riley biondo platino, vestito di pelle nera e con una siringa nel braccio che avesse voluto disseccare Sister Ray riducendola all’osso.

In soldoni, una ritmica marziale ed elementare che è quella di Moe Tucker, le lancinanti stratificazioni tra Hammond, violino e la dobro/rezophonic guitar di David, una sfibrante e maestosa frattura nella parte centrale che scioglie il rock nell’acido dell’improvvisazione colta e incolta. Su tutto, un’ancestrale senso di sublimazione da reiterazione. Ovvero, la ripetizione come mezzo per la purificazione.

Il resto non è ovviamente da meno. Ossessivo e ripetitivo, nero come la pece, stordente nel suo flusso onirico, Marches Of The New World è quanto di più rock si sia ascoltato nel campo del minimalismo raga. È la formazione stessa che accompagna David (dobro/rezophonic guitar) ad essere di impostazione classicamente rock: João Milagre al basso, António Forte alla batteria, il degno sodale Tiago Miranda dei Loosers alle percussioni e infine la Espers Helena Espyall al contrabbasso.

Le screziature avant di Virgins Visions, la circolarità psichedelica di Oil Crows, il finale in disgregazione sonica della vibrante Redemption Torture fanno manifestare in lontananza i rimasugli di quel mondo oscuro a metà tra rock e musica colta che ha visto germogliare fiori diversi come le sinfonie di Glenn Branca, i deliri noise di Lou Reed, il rituale droning di Outside The Dream Syndicate. Ma l’innegabile capacità di Maranha è quella di saper sapientemente lavorare di cesello, intagliando suoni apparentemente statici ma in realtà in perenne movimento e mutazione. Per chi scrive uno dei dischi dell’anno appena passato.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 2 voti.
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REBBY 6/10

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