V Video

R Recensione

9/10

John Zorn

FilmWork XIX: The Rain Horse

Signori e signore, il genio è tornato fra di noi.

Splendido cinquantaquattrenne, dalla vena compositiva rimasta fulgida e prolifica come un tempo, negli ultimi anni avevamo avuto il piacere di avvertire la mente (e che mente!) di John Zorn in altri progetti che non fossero i cosiddetti FilmWorks, il suo ricchissimo filone di colonne sonore per film underground e documentari di nicchia di giovani cineasti misconosciuti ai più (e, forse, anche ai meno). L’ultima soundtrack lasciataci era datata 2006 (per un uomo che pubblica una media di cinque album all’anno, un biennio di silenzio è tantissimo!) e musicava, con un gusto lounge sconfinante spesso della musica da camera, una commedia romantica dal titolo “The Treatment”. Easy listening, affascinante, dalle tonalità chiaroscurali e dai francesismi ritmici, aveva conquistato un po’ tutti.

Ora, come dicevamo, dopo la maratona del 2007 che ha portato nei nostri padiglioni auricolari tre dischi a suo nome (da ricordare ed esaltare “Six Litanies For Heliogabalus”, la dinamitarda conclusione della trilogia con Mike Patton che comprendeva anche “Astronome” e “Moonchild: Songs Without Words”), non può iniziare un nuovo anno senza un’uscita di monsieur Zorn. Ed eccolo, infatti, puntuale come un orologio svizzero. John chiama a sé musicisti dello straordinario calibro di Erik Friedlander al violoncello (già sentito nel decimo, mozzafiato FilmWork, “In The Mirror Of Maya Deren”, del 2001), Rob Burger al piano e Greg Cohen al basso, per mettere in note un accompagnamento dedicato ad un omonimo cortometraggio russo di 15 minuti ad opera di Dmitrij Geller (visionabile qui), un’intensa e poetica revisione esistenziale di classici dell’animazione quale Ežik v tumane.

Quello che è certo è che il film è al livello della sua colonna sonora: una gemma di straordinario valore.

Dimenticatevi gli aforismi jazzcore, cancellate le avanguardie, le urla gutturali, i growl, le scatarrate di Patton, le impennate chitarristiche, le gragnole percussionistiche, i clangori infernali delle ultime produzioni di Zorn: questo è un disco semplice, come lo era il suo predecessore.

Cambia il genere: non si tratta più di musica da camera, quanto più di una base neoclassica arricchita da un certo tipo di influenze gitane e da venature klezmer semplicemente spettacolari, che donano al tutto un’aria sofisticata ma non intellettuale, elegante ma non cervellotica. L’ideale per un sottofondo con la s maiuscola.

Quello che sorprende del disco è l’incredibile collaborazione fra i vari artisti, mai uno sopra l’altro in un patetico tentativo di dimostrare il proprio valore, e la compattezza coesa delle tracce prodotte, per le quali si può benissimo riportare il didascalico sunto di cui appena sopra. Non c’è una canzone migliore dell’altra, né magari qualche episodio più debole, ma sono tutte da gustare, magari con gli occhi socchiusi e un po’ in penombra. I musicisti, Friedlander su tutti (prova da trenta e lode, la sua!), fanno il resto. Effetto garantito.

Madrigali che danzano sulle punte, fra romanticismo e decadentismo (“Tears Of Morning”) si specchiano in profonde lagune sonore che parlano di un malinconico viaggio verso le lande desolate dell’Oriente (la title track), per finire poi con sostenute marcette tzigane a colpi di archetti e toccate pianistiche, nitide e commoventi (“The Stallion”). Perle pianistiche leggermente dissonanti si schiudono in un delicato scrigno eburneo (“Tree Of Life”), e chiudono il sipario dietro di sé con un’imponente impalcatura teatrale che, con il suo ritmo incalzante e il suo pianoforte acido, lascia gli ascoltatori ad intraprendere una storia di cappa e spada con le proprie sinapsi (“Wedding Of Wild Horses”, bellissima!). E non mancano i tuffi un po’ più cerebrali, come nella minimalistica “Bird In The Mist” o negli zeffiri che soffiano, profumati di essenze, in “Parable Of Job”.

Ma, se proprio volete un consiglio prima da amico, che da recensore vero e proprio, fermatevi per un istante e concedete sei minuti della vostra vita alla traccia n°5, “Forests In The Mist”. Il barocco che incontra il rococò, il flusso pianistico che dialoga con le corde del violoncello, il basso in sottofondo quasi impercettibile, e la faccia di Zorn che, in penombra, dirige i giochi e sublima l’essenza del sentimento. Non ve ne pentirete.

Per quanto mi riguarda, alla fine dell’ascolto di questi quaranta minuti, considero il diciannovesimo capitolo dei FilmWorks un disco che, nella sua assenza di sperimentalismo, trova il suo più grande punto di forza: saper emozionare.

V Voti

Voto degli utenti: 6,7/10 in media su 12 voti.

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.