Cold War Kids
Mine Is Yours
Come emergere da una scena musicale - precisamente, quella californiana della prima metà dello scorso decennio - già satura di proposte musicali delle più disperate? Facile - non proprio -: grazie ad una gran mole di esibizioni live, impreziosite da spettacoli infuocati colmi di sudore ed isteriche improvvisazioni. L'entusiasmo degli astanti, nonché il discorrere assiduo di webzine e riviste specializzate, è inizialmente bastato ai Cold War Kids per trasformarli, da perfetti sconosciuti, in uno dei fenomeni maggiormente venerati della scena indie americana. Che poi, di indie, i Cold War Kids possedevano - relativamente - poco, al tempo: di certo, nell’esordio Robbers & Cowards, era l’attitudine insieme arroventata e moderatamente dissoluta, fosca della proposta - creata attraverso un’abile decostruzione di alcuni elementi caratteristici del soul (riversata nel cantato), rock, funk e r’n’b (nel groove) - ad emergere, tenuta perfettamente coesa da una spinta ed un’attitudine melodica considerevole. Oltre alla musica, anche le liriche splendevano di luce propria: stimolate (per ammissione del leader, Nathan Willet) da mostri sacri della musica d’autore, come Bob Dylan e Tom Waits; dalla letteratura - lo stesso cantante, in un’intervista al Guardian del Febbraio 2007, dichiarava di aver preso spunto dal "processo" di scrittura del grande David Foster Wallace: <<I learned a lot from him about objectivity, and writing like a journalist>> - ; dalla fede (emerge un loro tratto ben radicato nei valori cristiani, che si riflette in un uso del linguaggio spesso simbolico). Pezzi come We Use to Vacation sono rappresentazioni di "collettive" sconfitte della vita quotidiana, di tormenti e vizi, d’impossibilità nel svincolarsi da tentazioni autodistruttive, vissute con angustia, prive però di bieca autocommiserazione o sterile sentimentalismo di sorta. Rimarrà parecchio radicata, a distanza di due anni, l’intensità descrittiva del "reale", delle dinamiche sociali così come di quelle intrapersonali: Loyalty to Loyalty (titolo ispirato da un saggio del filosofo Americano Josiah Royce, il quale sosteneva tesi agli antipodi rispetto all’ Übermensch nietzschiano) è lì a testimoniarlo. La seconda prova dei californiani è, in questo senso, un viaggio polveroso, realista, disilluso ma molto potente nell’affrontare varie tematiche dell’America odierna - ma il discorso è decisamente "estendibile" oltre i confini statunitensi -: sui definitivi sogni infranti (Welcome to the Occupation, Dream Old Man, Dream) e delle speranze (nell’ottima I’ve Seen Enough), sulle fragilità insite nelle appartenenze di genere (Every Man I Fall For) ecc. Caratterizzati da ritmi asimmetrici, da un suono più sporco e da un’istintività oscura ancor più marcata, Loyalty to Loyalty non subissava le gesta dell’esordio, ma manteneva comunque intatta quell’energia arcana capace di rapire come poche altre cose in quel momento.
Ed eccoci a Mine is Yours, uscito a fine gennaio. A Jacquire King (subentrato a Kevin Augunas), già produttore di band dalla risonante esposizione mediatica negli U.S.A., come Modest Mouse e Kings of Leon, viene affidata la "regia" dell’ultimo disco (a tre anni dalla precedente release) dei quattro losangelini. E si sente. Fastidiosa (per chi ha amato incondizionatamente la genuina spontaneità dei primi due dischi) l’impressione, già al primo ascolto: il sound (che pare andare a braccetto con le recenti performance, di matrice mainstream, di un gruppo ormai, in termini qualitativi, fuori dai giochi come i Kings of Leon) pare confezionato appositamente per palazzetti, arene, stadi; relegando - o meglio, deturpando - di fatto quanto di valido i Cold War Kids erano riusciti a guadagnarsi, in termini stilistici, nei lavori precedenti. Le rifiniture di chitarra di Johnny Russel, dense e dilatate in slide guitar, accompagnate da un substrato ritmico echeggiante, prodotto dalle pelli di Matt Aveiro, nella title-track, non fanno, fin da subito, presagire nulla di buono.
Lungi dal risultare convincente, la compattezza e l’attitudine pop del singolo Louder than Even mette in mostra la sinergia rude tra basso e batteria, dove il cantato di Willet pare più efficace che altrove. Dai vacillanti tribalismi introduttivi di Royal Blue, avvolti in un’atmosfera timidamente jazzy, l’irruzione in un ritornello squisitamente "pop" risulta urticante. E meglio non ampliare troppo le considerazioni negative sulle, a mio avviso, peggiori tracce del disco, ossia Finaly Begin (la quale si "distingue" per un andamento, sia nel cantato che nella struttura melodica, catchy, nonché per un’"indole" furbesca e radiofonica) e l’insopportabilmente epica Out of the Wilderness. Saltando a piè pari l’innocua Skip the Charades il disco riserva, finalmente, due brani discreti, Sensitive Kids e Bulldozer: il primo, caratterizzato da una convincente ritmica digitale, poggia su d’una non ben riconoscibile struttura art pop; il secondo, si dispiega in una ballata languorosa, dove il cantato in falsetto di Willet danza agevolmente tra linee di basso reiterate (composte da Matt Maust), intime movenze pianistiche e su tribalismi finalmente incisivi - peccato solo per quei, forzati, crescendo prima dei ritornelli. Rompe l’equilibrio Broken Open, che, nel suo introduttivo incidere esotico, si tramuta successivamente in un pezzo "degno" dei Train (il che, è tutto dire). In Cold Toes on the Cold Floor spicca il bel riff "desertico" in coda: nel mezzo, spetta all’armonica accompagnare un basso particolarmente "pesante", gonfio. Il tutto si lascia ascoltare, ma senza entusiasmi. Con Flying Upside Down, ruffiana e pomposa, si conclude l’ascolto del disco, il quale lascia straniti anche per la mancanza di lucidità in fase di stesura dei testi: senza entrare nei dettagli, i nostri scelgono un approccio meno sui generis, nonché decisamente meno convincente rispetto al recente passato.
Il dubbio è sorto a buona parte della critica: l’obiettivo prefissato dai Cold War Kids è stato quello di farsi condizionare dalla "vetta", per far breccia nell’ascoltatore "disinteressato" (azzeccando, magari, il singolo giusto da mandare in "rotazione")? Ossia, per vendere - in questi tempi di magra - di più? Bene, nel loro caso, il prezzo da pagare è una drastica perdita qualitativa della "proposta". C’era in ballo la credibilità di una band che, nel proclamare (dopo la pubblicazione di Behave Yourself, Ep del 2010) "pretese" di raggiunta maturità artistica, è riuscita in un sol colpo a bruciarne una buona fetta acquisita in questi anni. Tanta (troppa, considerando il disco a posteriori) l’attesa per il loro ritorno: resta, purtroppo, troppo poco da portarsi dietro. E dentro.
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