The Shins
Port Of Morrow
Tutta colpa dei neutrini. Dovevano annichilire l’E=mc² del vecchio Albert e invece la formula della relatività è ferma lì immobile, granitica come il mezzobusto di Mentana alle otto e il 4-3-3 zemaniano. Poi ci sono gli Shins da Albuquerque, quelli che aromatizzavano nostalgia canaglia dalle cuffie di Natalie Portman. Amarcord Shins, già. “Wincing The Night Away” era giusto un lustro fa, quando l’indie-pop appena più sfacciato del solito ti piazzava un imprevisto #2 Billboard, alla Sub Pop ancora ringraziano con i lacrimoni, e James Mercer sarebbe diventato il songwriter da rivincita dei nerds che tutti aspettavano. La vita è però cosa banalmente arcigna e una mezz’oretta dopo dal clamore mediatico ecco che la band dei quattro scoppia stressata alla stessa velocità delle furbe e disinvolte particelle elementari. Fine primo tempo, al terzo disco, e ognuno per sé tranne l’omino Mercer, ostinato a riformare l’intera line-up con la caparbietà di Mario Monti alle prese con l’articolo 18 e una label personale ex-novo (la Aural Apothecary, distribuzione Columbia). E siamo nel marzo 2012, al fatidico secondo tempo della maturità dopo un paio di figli, il focolare domestico a Portland, le comparsate durante i grammys e i funerali mediatici di attori under trenta: i nuovi Shins e la relatività del lessico pop, ovvero “Port Of Morrow”, il porto ancestrale dell’adolescenza in Oregon, dove Mercer fantasticava su uno strano segnale ai bordi della strada, sulla vita e la morte, “like the ace of spades, port of morrow, life is death, death is life…” Giunto ai quarant’anni il buon Jimmy ha sempre quell’aria da uomo qualunque che osserva il bestiario quotidiano con una complicata mission: scrivere la canzone pop perfetta, possibilmente “semplice” e sincera (“…Well, this is just a simple song, to say what you done…”). L'ex antieroe indie ci va vicino, ormai one-man band di se stesso che tenta il gran salto mainstream aiutato dal tuttofare Greg Kurstin, uno che di norma produce Lily Allen suonando ogni strumento gli capiti a tiro (gli ex former-members Dave Hernandez e Martin Crandall sono comunque presenti nei credits in qualche ultimo sporadico intervento). Le vette passate di “New Slang” e “Chutes Too Narrow” restano echi preziosi della migliore penna pop degli Anni Zero insieme a Carl Newman, alchimie non replicabili, ma James non demorde e calibra all’essenziale la sua creatura dolciastra rimasta senza scudieri, aggrappandosi al consueto amore per il pop d’Oltremanica di Kinks, Beatles, Neil Finn e Smiths.
“…I have been down the very road you are walking now. It doesn’t have to be so dark and lonesome…”
In “Port Of Morrow” fanno capolino anche il bassista Ron Lewis (Grand Archives), Eric D. Johnson, Joe Plummer dei Modest Mouse e la signora Sleater-Kinney Janet Weiss alla pastosa batteria, segno che archiviati gli effimeri Broken Bells con Danger Mouse il nostro c’ha preso proprio gusto a trafficare i propri lavori di collaborazioni sparse e amici. “Port Of Morrow” riparte da quella recente commistione su territori più canonicamente pop, limando taluni orpelli che appesantivano a tratti “WTNA” in un gradevole compromesso fra cosmici sixties e modernariato alternative-ganzo (al missaggio c’è Rich Costey). Aspettatevi dunque un gradevole campionario di rotondi bozzetti lounge-pop, lo start “The Rifle’s Spiral” che ondeggia sornione battito synthetico su interferenze space-age, il glockenspiel nella ballad chiltoniana “It’s Only Life” e il riff multicanale della sbarazzina, estiva “No Way Down”, i bentornati dlin-dlon stile “Bait And Switch”, Gene Clark criogenizzato nel museo di “Futurama”, e gioiellini psych-folk che portano a spasso Brian Wilson su sconfinati campi verdi di raccolte “Nuggets” (“September”, deliziosa). Un porto sicuro per gli Shins aficionados, di transitorietà easy e speculativi almanacchi sing-a-long, esempio standard i ruffiani Weezer country di “For A Fool”, talvolta oggetto vezzoso, tipo la tromba simil jazz-tropicalia che spunta in “Fall Of ‘82”, e tirando le somme il barbuto James sembra non aver perso il tocco d’autore che gli permette di scrivere il power-pop epico del singolo “Simple Song” e una titletrack da favola dark alla Tim Burton, il vero Tim Burton non il Disney emo di adesso, una lullaby orchestrale in falsetto soul quasi addormentata nel limbo onirico e un po’ manieristico dell’artwork di Jacob Escovedo. Pazienza se in certe foto promozionali ricorda un Fausto Brizzi simpatico, nessuno è perfetto. Per ulteriori informazioni rivolgersi agli sfigati ricercatori del Cern.
“…October chill in that old, dusty town. Halloween come, i was still feeling down…”
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