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R Recensione

8/10

Lunatic Soul

II

Una supremazia dell’anima. Un desiderio di risurrezione. Un guardare oltre, guardandosi dentro. Questi i motivi del viaggio in solitaria di Mariusz Duda, bassista, voce guida e artefice dei Riverside. Niente, neppure un’ombra della sua band, nessun eco di quell’elaborata miscela prog-metal. Qui c’é solo profondissima introspezione e lo sfogo non è cercato attraverso serratissime ritmiche, vertiginosi muri di chitarre, lirismo, sterile tecnicismo. Quasi sembra un altro artista quello che si presenta dietro lo pseudonimo di Lunatic Soul. Dopo l’impressionante omonimo album di debutto, ci si aspettava di vedere se la coerenza fosse una caratteristica da poter attribuire a Duda. Il simbolo di questa coerenza è già tutto nel titolo del lavoro: “II”. Ma non solo. C’è di più, molto di più, in questo nuovo album (l’album bianco che fa il paio con quello nero del 2008): qui, se possibile, si va ancora più a fondo nell’abisso umano.

Attraverso la predilezione dell’impatto acustico (chitarra, piano, percussioni sono presenti in ampie dosi), una cura maniacale per le armonie vocali (in questo senso l’assonanza con le timbriche di Maynard James Keenan dona ulteriore suggestione) e l'utilizzo di una elettronica non invasiva (eppure molto presente nelle sottotrame), quest’Anima Lunatica va alla ricerca dell’origine delle proprie paure e della propria incompiutezza, percorrendo i sentieri di una metaforica landa desolata, discendendo le colline innevate della delusione e cercando di travalicare ogni inopportuna illusione in grado di lenire ferite dall'antico dolore.

La musica scorre, tra radure di radiosa speranza e pozzi neri di pentimento e rammarico, a volte dolente altre volte luminosa. Si entra in questa valle oscura, con lo struggente strumentale posto in apertura di “II”, The In-Between Kingdom (il regno intermedio): una volta oltrepassato il valico, l’ingresso è precluso alla vista e quindi ad un immediato ritorno. Si può solo andare avanti per vedere se un po’ di luce giace al di là dell’oscurità. Una oscurità a cui pure bisogna abituare gli occhi. Con Suspended In Whiteness si è già nel cuore di questa materia offuscata: a metà brano entra persino la batteria e il passo di marcia è dunque ormai deciso. No, indietro proprio non si torna. I don’t feel alive, I feel nothing, scandisce chiaramente Mariusz. Il senso di smarrimento è denso eppure la consapevolezza che questo sia solo uno stadio di passaggio è tangibile. Non è la fine, anche se l’illuminazione è esigua. Superata l’ipnosi di Limbo si accede all’altro brano saliente di questo pellegrinaggio: il mantra ritmico di Escape From ParadIce esalta ed induce a non fermarsi. Prendere fiato e affrontare la steppa di Transition (tra le composizioni più alte dell’intero disco): abbandonandosi ad essa se ne può uscire trasfigurati. Arrivare dunque alle porte dell’alba è possibile, pur attraverso immagini simboliche ancora cariche di tristezza (Gravestone Hill).

Il finale è affidato al brano stilisticamente più diverso dagli altri (Wanderings), sostenuto com’é dalla batteria elettronica e da una struttura ordinata che addirittura potrebbe essere riconducibile a quella di un singolo.

In questa traversata gli echi che tornano familiari sono quelli degli Anathema della fase matura (Suspended In Whiteness), lo Steven Wilson più acustico (Asoulum), gli Antimatter, gli Agalloch o gli Ulver dalle atmosfere più intime, Brendan Perry (con o senza i Dead Can Dance: ascoltare Wanderings per credere), Jan Garbarek (Transition ne è testimonianza). Lunatic Soul è un progetto nato e sviluppato senza compagni di viaggio sebbene all’album partecipino Maciej Szelenbaum (dei Riverside, qui impegnato alle tastiere e al flauto) e Wawrzyniec Dramowicz (batterista degli Indukti).

Lo dico con certezza: questo Lunatic Soul “atto secondo”  è una delle perle rare di questi ultimi 24 mesi. Il tempo saprà esprimersi diversamente, ma almeno quest’anno ho l’illusione di potermi rifugiare nei suoi oscurati orizzonti con l’impressione di afferrare idealmente qualcosa che si avvicina pericolosamente al mio più personale concetto di musica: non ho pertanto remore nel far svettare questo album e questo artista ben al di sopra di molte delle cose che ho ascoltato, pure con piacere, in questo 2010.

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Voto degli utenti: 6,2/10 in media su 5 voti.
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C Commenti

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rubiset (ha votato 7 questo disco) alle 13:52 del 8 dicembre 2010 ha scritto:

album bianco

non li conoscevo, un regalo inatteso suggestivo sotto l'albero!(insieme a quello nero)

Filippo Maradei alle 14:03 del 8 dicembre 2010 ha scritto:

Verissimo, ci sento molto gli Ulver di "Shadows of The Sun"! Vediamo un po' che dice allora, m'hai incuriosito!

alby66 alle 10:13 del 9 dicembre 2010 ha scritto:

grazie per questa recensione.ho particolarmente apprezzato il primo lavoro e non sapevo della pubblicazione del secondo.Nel video allegato colgo reminiscenze "porcupiniane" legate al Wilson più malinconico ed acustico.Un motivo in più per procurarmelo!