The Third Eye Foundation
The Dark
"The Dark” o l’oscurità. Il titolo dice già molto di questo ritorno di Matt Elliott. Un ritorno legato, dopo qualche anno di pausa, al suo vecchio moniker, quello con cui si fece notare da addetti ai lavori e stampa specializzata – due titoli su tutti “Ghost” del 1997 e “Little Lost Soul” del 2000 – sul volgere del vecchio millennio. Ovvero quando si iniziò a parlare dell’altra Bristol, quella che viaggiava a luci spente rispetto alla ribalta della bristoliade di Massive Attack e Portishead. Quella che, per sua stessa natura, doveva rimanere nell’ombra e nell’oscurità. Appunto.
L’atmosfera, o per meglio dire, il mood è molto più vicino però ultime prove soliste di Matt Elliott; in particolare il tutto sembra ricondurci a quel capolavoro che è “Drinking Songs”. “Folk mitteleuropeo del nuovo millennio” lo si potrebbe definire. La scelta della ragione sociale in realtà non muta di molto la sostanza, visto che Matt è un tipo abituato da sempre a lavorare in solitudine. E soprattutto in libertà assoluta.
Già il primo pezzo, Anhedonia, ci riporta emotivamente alle situazioni e al clima di quel gioiello del 2004: a quei suoni opprimenti, in particolare al brano che ricorda(va) le vittime del Kursk, quei 118 marinai russi inghiottiti dalle tenebre del mare (e soprattutto della storia) nell’agosto di dieci anni fa. Sembra di sentirle ancora quelle voci sotto il rumore delle macchine – una battuta elettronica marziale eppure inesatta, fallace, sballata –, un grido di aiuto che pian piano si spegne sotto le onde del mare glaciale.
L’album è strutturato come se si trattasse di un’unica composizione composta da cinque sezioni. Tutti i pezzi sono collegati fra loro, come in un blocco unico, un monolite proveniente da chissà quale galassia. I movimenti tra le varie composizioni e all’interno delle stesse sono minimi, quasi impercettibili, ma non per questo ci si trova di fronte ad un album noioso o monotematico, anzi. Il suono si apre, si dilata e poi si richiude, riprende a battere più velocemente, in modo quasi convulso. Siamo a Standard Deviation, sono passati più di undici minuti, ma a volte il tempo sembra quasi fermarsi. Questo è uno di quei casi. Paredolia ha un battito ancora più ansiogeno e spasmodico, potrebbe essere la soundtrack di un incubo lynchiano o di uno degli ultimi lavori di David Cronenberg, magari quel “La promessa dell’assassino”, che sa tanto di Europa orientale.
Closure, invece, è più distesa e dilatata. Ha un motore percussivo traballante, ma il suono si libra in volo, si dischiude verso l’esterno. Dentro c’è di tutto: drum’n’bass, canzone d’autore, arie d’opera, paure ataviche. Un mix che si risolve nella lunga coda dronata da cui prende le mosse la finale If You Treat Us All Like Terrorists We Will Become Terrorists (titolo già incoronato tra i più belli dell’anno da molti internauti). La miscela è ancora la stessa, ma in questo caso sembra di giungere allo spasmo finale: il tappeto percussivo diventa assolutamente opprimente e a sopravvivere rimane solo un ultima, lacerante bava di feedback. Un ultima via d’uscita per la salvezza.
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