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R Recensione

6,5/10

Soundsick

Astonishment

Il motivo fondante per cui ci decidiamo alfine a segnalare l’esordio del power trio di Fabriano sta, in sostanza, nella lunga (-hissima) gestazione incontro alla quale sono passati gli undici brani di “Astonishment”, quivi rifiniti, ma già sparpagliati di qua e di là su piccoli demo ed incisioni artigianali autoprodotte dal 1998 in avanti. E sì che proprio pivelli i Soundsick non lo sono, soppesata la nutrita attività live che li ha portati, nel corso degli anni, ad aprire per Il Teatro Degli Orrori e Zu sugli altri. Combinazione quanto mai bislacca, s’intende. Ilario e Alexander Onibokun, fratelli d’origine nigero-venezuelana e pilastri della formazione (alla quale si aggiunge anche Valentino Teodori al basso), nulla fanno per dissimulare la loro diretta filiazione artistica dal ribollente magma (post-)grunge col baricentro, in verità, spostato in avanti più nella seconda che nella prima metà degli anni ’90, come degli Alice In Chains tricolori sopravvissuti senza scosse – e drammi – all’uscita di scena di Layne Staley.

Criticamente ed esteticamente parlando, il disco si attesta sulla sufficienza. Aggiungiamo noi mezzo punto, sulla base di due principali motivazioni. Dietro la (prevedibile) scorza – chitarre rocciose, voci roche, ritmiche quadratissime – si nasconde qualcosa che, almeno in parte, aiuta a stornare la prevedibilità del platter. Sono piccole, discrete, ma sostanziose iniezioni di psichedelia sottocutanea, stille di acido che penetrano all’interno dei robusti tessuti d’acciaio della sei corde e ne disgregano, al contempo tingendolo di inedite sfumature, l’impatto. In altri termini: per quanto banale vi possa suonare il canonico mid di “Loneliness” (c’è, ahimè, il peggior rock FM americano) e telefonato l’assalto hard rock di “Asphixia”, le accensioni spaziali di “Lena”, il piantato rifferama tooliano di “Moleskine” (con tentazioni di deliquio noise sempre dietro l’angolo), il valzerino per piano e synth – à la “Mellon Collie” – di “Grandparents”, le chitarre accecanti di “Disco Rat”, la densissima cavalcata conclusiva di “Candies & Cum” pareggiano tranquillamente il conto.

Il secondo motivo? L’ottima preparazione tecnica. Che permetterà ai ragazzi, lo spero, di guardare oltre, superandole, le infatuazioni meno giustificabili, come i muri di suono di risibile cifra qualitativa, ad un passo dal nu metal, della title track. Noi abbiamo detto la nostra. Ora tocca a voi.

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