Amentia
Limite Acque Sicure
Gli anglosassoni usano il termine hook (gancio) per definire la frase musicale contenuta in una canzone (generalmente il suo ritornello) che ha potere di “agganciare” l’interesse di chi è all’ascolto, semplice ed allo stesso tempo interessante, con facoltà di mettere d’accordo tutti, dai più attenti ai distratti nonché effetto immediato, quasi al primo ascolto.Saper creare hooks non è da tutti, ci sono fior di artisti che confezionano ottima musica ma pressoché priva di questi agganci, definibili commerciali ma nel senso buono del termine. E non è che lo fanno apposta, per snobismo o presunta nobiltà artistica, è che…proprio non gli vengono! Molti darebbero non so cosa per esserne capaci.
Amentia è una rockband abruzzese attraversata da questo prezioso talento, posto che in parecchie loro canzoni arriva puntuale il momento contagioso, il passaggio melodico che facilmente capita di ricanticchiare già dopo averlo ascoltato solo due o tre volte. È una qualità preziosa e decisiva che debitamente coltivata, e soprattutto adeguatamente sostenuta, diffusa e pubblicizzata da chi di mestiere, degnerebbe questa formazione senz’altro di un successo vasto ed a più livelli.A più livelli perché se questa è musica più che accessibile, chi la suona sa effettivamente il fatto suo.
Nel quartetto degli Amentia tutti suonano più che bene, compongono ancora meglio e arrangiano benissimo, quindi l’appassionato di rock (certamente non estremo, diciamo rock classico) che vuol sentire gli strumenti lavorare in un certo modo, con competenza, spinta, varietà, può trovarvi pane per i suoi denti. Il gruppo vive una riuscita ed originale simbiosi: la base strumentale è molto dinamica e presente, “americana” nel gusto chitarristico e nella scelta di suoni mai troppo riverberati, schietti e vicini all’ascolto; il canto (in italiano) di Fabio Polisini è invece squillante e mediterraneo, riuscendo a impossessarsi delle melodie anglosassoni e piegandole alle proprie radici, a quelle vocali aperte, a quel miscuglio di solarità e comunicativa che ci è proprio.La sezione ritmica (Alberto al basso e Pablo alla batteria) è veramente inappuntabile, lavora pulita e potente a sostegno delle chitarre di Remo, un musicista misurato che esprime feeling, varietà e precisione senza perdersi in lungaggini ed esagerazioni.
Per niente scontato ascoltare un chitarrista italiano, in ambito semiprofessionistico, con tali doti di intonazione, tempo, pulizia, chiarezza di fraseggio. Remo ama scomporre la ritmica sfruttando la possibilità di sovraincidersi e facendo perciò lavorare almeno due diverse chitarre con partiture ad incastro, tenute ben larghe e distinte nel panorama stereo.La sensazione, molto dinamica, è quella di stare ascoltando un gruppo con due chitarristi al lavoro, ispirato strumentalmente alle grandi formazioni così organizzate come ad esempio Aerosmith, Black Crowes, Great White, Stones e tutte quelle del cosiddetto rock sudista.
Fra le quattordici variegate song che compongono “Limite Acque Sicure” ciascuno può battezzare le sue preferite secondo gusto personale. Cito subito “Destino” per la presenza del primo dei ritornelli a vele spiegate di cui si diceva, servito su un piatto d’argento dal lavoro delle chitarre, e poi la semiacustica “Angelo”, molto lirica, a contrasto con la seguente e temperamentale “Non ti capiranno mai”, vero festival di funkyrock con gioco incrociato di pedale wah wah, organo, risonanti none in arpeggio.
“Storie” sorprende molto: dopo una strofa un poco dimessa e telefonata parte un refrain dall’ampia escursione melodica, irresistibile e fischiettabile, nobilitato subito dal solo di chitarra, su poche note ma di classe cristallina. “Discomusic” farebbe la felicità di Glenn Hughes essendo un altro funk rock ma stavolta al fulmicotone, Alberto e Pablo a pestare duro e bordate d’organo (suonato da un tastierista ospite) a espandere gli accordi di chitarra. La ballata in tre quarti “Il mondo che cerco per me” andrebbe cantata con maggiore precisione, mentre la successiva “Maschera di plastica” non mantiene nel suo sviluppo le grandissime promesse del terremotante inizio chitarristico.
“Trasformazioni notturne” è forse la favorita di chi scrive: la voce giovanile di Polisini è qui al suo meglio, circondata da cori femminili pinfloydiani e dal sapiente arpeggio di Remo. L’acustica ed intimista “Strade” indugia su accordi in minore pieni di sospensione, poi la voce si impenna e conduce a un cambio di ritmo, il brano si addensa senza però perdere di liricità. La ruffianissima “Le cose che non vedo” si appoggia ad un arrangiamento orchestrale che le chitarre ritmiche riescono comunque prima a smuovere e poi fagocitare nelle loro risonanze. “Il risveglio di Tommy” parte come una scheggia a 200 battute al minuto, sugli scudi la sezione ritmica e la competentissima serie di licks di rockblues sudista da parte del navigato chitarrista; per la coda finale viene dimezzato il tempo e il brano muta in atmosfere degne del George Harrison più mistico. La pianistica “Nuvola” chiude il lavoro e mostra un altro bel solo di chitarra, didascalico ma di sicuro effetto. Diavolo le si è citate quasi tutte, segno che è proprio un disco valido!
Convincente la proposta di questi quattro musicisti, a cui si permette di consigliare un maggior sviluppo dei cori, particolarmente adatti al genere. Consigliatissimo.
Tweet