Gianluca Grignani
La Fabbrica di Plastica
Skizzo strimpellava appena, io anche peggio. Volevamo suonare Pink Moon, ma non conoscendo quell’accordatura ripiegavamo su Grignani. In fondo Nick Drake lo conoscevamo proprio grazie al Grigna che lo aveva piazzato in testa alla propria top ten da isola deserta.
Incredibile? Invece è vero: Gianluca Grignani prima di diventare quella cosa brutta che è ormai da troppi anni, è stato uno che citava Nick Drake, Radiohead e Beatles e soprattutto è stato un cantautore.
Un artista promettente e coraggioso che dopo i milioni di copie vendute, con quella pacchiana bomboniera sanremese che è Destinazione Paradiso, ha deciso di fare di testa sua, sfornando due album di grandissimo valore come La Fabbrica di Plastica (1996) e Campi di PopCorn (1998): ma ovviamente nessuno se lo è cagato.
Quei pochi che non hanno ritenuto sacrilego leggere una recensione di Grignani, allora si staranno chiedendo cosa sia successo a questo ragazzo per ridursi a rasare aiuole nelle estati italiane? La risposta è facile e scontata: il Grigna da aspirante suicida è diventato felice, ha smesso di farsi tante pippe mentali ed ha cominciato a farsi due conti in tasca. Praticamente la morte artistica.
I più cattivi diranno che forse avrebbe fatto meglio a suicidarsi, ma cinismo a parte accontentiamoci di questo magnifico album: d’altronde il panorama italiano è pieno di pseudo artisti che campano senza aver prodotto una sola nota valida.
Fabbrica vede la luce nel 1996, un anno dopo il botto di Destinazione Paradiso; la stampa di settore ed il folto seguito, soprattutto le ragazzine orfane dei Take That, non aspettano altro per consacrare il novello Vasco, che è anche più bello dell’originale. Inutile sottolineare lo straniamento e la delusione nel trovarsi tra le mani e nelle orecchie un disco del genere: copertina verde acido senza la faccia belloccia di Gianluca (che nel frattempo si era fatto una specie di cresta) e soprattutto un tripudio di chitarre elettriche, acustiche e 12 corde, melodie acide e testi psichedelici e depressi.
Ad un giornalista che chiedeva a Grignani se si rendeva conto di che disco avesse fatto, lui rispose candidamente “…non lo so, io volevo solamente rifare The Bends!...”
Ora, senza inerpicarci in paragoni improponibili e spericolati, possiamo affermare che nel panorama musicale del 1996 un disco come Fabbrica avrebbe dovuto fungere da ponte tra la scena underground, ancora sconosciuta ai più, e la scena mainstream più nobile ed invece lo snobismo dei primi e la diffidenza dei secondi condannarono l’album all’oblio, salvo ripescarlo da alcuni anni come cult.
In quella seconda meta dei ’90 impazzava il britpop eppure il giovane Gianluca, ignorando quella scena, pescò a piene mani dalle ceneri del grunge e dalla propria formazione da rock classico, dando vita ad un suono sporco e nitido allo stesso tempo. Suono che riuscì a sostenere una scrittura spesso primitiva conferendole addirittura forza e profondità ed elevando poeticamente concetti trattati a volte con troppa superficialità.
Esempio perfetto è il brano “Solo cielo”: un’istintiva confessione atea che, incorniciata da un basso potente e minaccioso e da psichedeliche sferragliate elettriche, diviene quasi una preghiera pagana.
Ci sono anche momenti in cui la scrittura risulta invece perfetta ed equilibrata nella sua semplicità, come nel brano d’apertura “La fabbrica di plastica”, splendida ballata elettro-acustica la cui unica pecca, che le negherà l’olimpo del rock (italiano), è il nome del suo autore.
Vi sembrerà ancora incredibile, eppure il disco è costellato di gioielli ancora sconosciuti ai più come la malata confessione d’amore de “L’allucinazione”, dove una splendida acustica 12 corde fa da tappeto sonoro agli incubi di solitudine di Gianluca; stesso discorso per “Galassia di melassa”, in cui i suoni si fanno più saturi ed eterei mentre la speranza si comincia a far più presente.
Ma Fabbrica è soprattutto il disco delle distorte cavalcate rock come “+ famoso di Gesù”, “Testa sulla luna”, “La vetrina del negozio di giocattoli”, “Rockstar” e la traccia fantasma “Qualcosa nell’atmosfera”, i ritmi serrati e indomabili di questi pezzi sembrano proprio aver liberato la vena creativa di Grignani, imbrigliata all’esordio dall’ingombrante arrangiamento di Vince Tempera.
Il disco si chiude con la bassa fedeltà de “Il mio peggior nemico”, ballata casalinga per chitarra, voce e rumori vari dove Grignani fa i conti col proprio successo.
Skizzo poi non l’ho più visto e sentito, Grignani purtroppo sì.
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